90 ANNI DI ASTE: CAPOLAVORI DA COLLEZIONI ITALIANE

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Scultore senese

€ 15.000 / 20.000
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Scultore senese

CROCIFISSO (CRISTO DEPOSTO CON BRACCIA MOBILI)

1340/1350 circa

scultura in legno da frutto policromato (pero?), cm 158x105x21,5 (alt. cm 123 con le braccia ribassate)

 

polychrome fruit-tree wood sculpture (pear?), cm 158x105x21,5 (h. 123 cm with lowered arms)

 

€ 15.000/20.000 - $ 19.500/26.000 - £ 12.000/16.000

 

Provenienza:

collezione privata

 

La sagoma snella del Crocifisso è scolpita a tutto tondo in un unico massello di legno da frutto, forse pero, ma la consueta iconografia del soggetto si avvale di braccia reclinabili volte a garantirne la duplice funzione di Cristo deposto. Senz’altro riconducibile al contesto figurativo di ambito toscano di cui tratteremo oltre nel dettaglio, quest’opera costituisce un significativo ritrovamento critico per aggiornare il corpus superstite dei simulacri centroitaliani di età gotica impiegati nella liturgia collettiva del Venerdì Santo. Durante tale celebrazione non si sarebbe assistito a una semplice riproposizione scenica del Dramma, bensì a una ritualità di grande coinvolgimento emozionale garantita dalla recitazione delle cosiddette Lamentazioni mariane. L’esito, infatti, era quello di sacre rappresentazioni teatrali basate su dialoghi derivati dall’uso popolare della Lauda e dal Planctus di tradizione latina, assecondando peraltro la tendenza del rinnovamento spirituale che già pervase profondamente il XIII secolo, in particolare grazie alla crescente affermazione di ordini mendicanti come Francescani e Domenicani, nonché di pari passo col dilagare delle numerose confraternite. Una volta sfilati i chiavelli delle mani e dei piedi, l’immagine scolpita del Cristo doveva essere rimossa simbolicamente dalla croce - ormai dispersa ma si può presumere che corrispondesse al tronco dell’Arbor Vitae -, provvedendo dunque ad adagiare gli arti superiori lungo i fianchi per simularne la tumulazione nel sepolcro. Il meccanismo primitivo era garantito dagli alloggiamenti ricavati nelle spalle e dall’innesto-cardine delle braccia fissato da semplici perni lignei. Il ripetersi secolare di questa pratica compromise però il movimento stesso fino a danneggiare irrimediabilmente le zone più esposte, tra cui le mani e parte degli avambracci, sostituiti da un restauro ottocentesco con rifacimenti più grossolani. È invece probabile che l’eliminazione delle orecchie e della capigliatura - forse dapprima folta al pari della barba quasi rossiccia e intagliata con ciocche che dovevano sfiorare le spalle -, la riscalpellatura della calotta, così come la variazione della pendenza del capo, siano imputabili all’accomodamento per una parrucca di capelli veri, espediente realistico molto frequente dopo i nuovi precetti liturgici della Controriforma. Il recente restauro conservativo, condotto nel 2008 a Oriago di Mira presso il laboratorio di restauro di Giovanna Menegazzi e Roberto Bergamaschi, ha pertanto eliminato le incrostazioni delle varie ridipinture che occultavano la pregevole sensibilità plastica dell’anatomia, valorizzando la tonalità avorio dell’incarnato e confermando che la versatilità tipologico-funzionale di cui l’opera si fa interprete era stata prevista fino dal principio. Alla luce degli aspetti descritti è stato altresì ritenuto opportuno procedere al delicato ripristino filologico dell’antico meccanismo mobile. Ciò ha consentito il naturale svasamento a “V” delle braccia verso l’alto, mentre il perizoma - pervenuto privo della colorazione iniziale salvo minimi frammenti di blu presenti sulle terga - è stato uniformato da una sottile imprimitura di gesso reversibile.

Fondato sulla testimonianza evangelica dell’apostolo prediletto Giovanni (Gv. 19, 38-42), il soggetto della Depositio Christi divenne fin dalla sua comparsa nell’arte bizantina fra IX e X secolo uno dei temi più drammatici e riprodotti dell’iconografia cristiana. Eppure bisogna considerare che nei vangeli non emergono dettagli utili all’individuazione completa dei personaggi presenti a questo pietoso rituale. Anzi, le reali identità dei protagonisti rimangono incerte, fatta eccezione naturalmente per Giovanni e per la segnalazione esplicita di Giuseppe d’Arimatea, membro influente dell’antico Sinedrio e donatore sia del sudario, sia del sepolcro di Cristo. In seguito al consenso richiesto a Pilato, infatti, è Giuseppe che toglie il corpo di Gesù dalla croce, mentre a Nicodemo - menzionato come occultus discipulus Christus senza però alludere a una sua partecipazione diretta - è attribuita l’offerta di mirra e aloe necessaria al rito ebraico della sepoltura. Altri spunti importanti affiorano dai testi apocrifi, specialmente quello dello stesso Nicodemo, dove non solo è citata la presenza di Maria - generalmente omessa nei vangeli canonici - ma è proprio l’autore che si definisce partecipe attivo della “schiodatura” tramite l’uso di una tenaglia. Quasi in antitesi ai severi parametri formali del Christus Triumphans di età romanica, tra la fine del XII secolo e per tutto il Duecento si riscontra finanche la messa in opera di gruppi lignei monumentali che rispettassero in modo completo le fonti iconografiche a disposizione: basti citare gli esempi celeberrimi delle Deposizioni di Tivoli e di Volterra. Lo schema compositivo è incentrato sul corpo esangue del Cristo, approntato con uno o nella maggior parte dei casi con entrambe le braccia liberate dalla croce e offerte verso lo stante in una sorta di misericordioso gesto d’abbraccio. In questo primo genere di sculture, assieme ai tradizionali soggetti dolenti di Maria e San Giovanni, compaiono dunque anche i personaggi di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo intenti nel sorreggere il Deposto: secondo le diverse varianti, talvolta potevano rallentarne con una corda la discesa inerte o, come anzidetto, schiodarne i piedi. La situazione tipologica sarebbe però mutata rapidamente dagli inizi del XIV secolo sia per l’evolversi delle cerimonie liturgico-processionali, sia per il ruolo emergente delle confraternite religiose. In particolare il fervore delle nuove compagnie - ben nota è quella detta dei Battuti - persuadeva a un’adesione collettiva ancora più intensa, spesso tramite l’impiego di attori viventi che, come per il caso del Cristo qui proposto, avrebbero dovuto sostituirsi a Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. La conseguenza di tale avvicendamento generò il rapido ridimensionamento degli antichi gruppi plastici fino al loro totale abbandono. In qualche caso le sculture superstiti di Deposto furono riadattate, ma è il cosiddetto Crocifisso gotico doloroso che avrebbe segnato l’affermarsi della rinnovata cultualità promossa dalle confraternite fino a coincidere spesso con l’utilizzo delle braccia mobili, artificio divenuto indispensabile per rendere credibile l’azione dello “schiavellamento”. Citiamo in merito gli esempi più antichi dei Deposti della Pinacoteca Comunale di Spello e del Museo di Palazzo Santi a Cascia, entrambi ascrivibili a maestranze umbre attorno agli inizi del Trecento, a cui si aggiunge il caso presso il Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, già documentato nel 1333 e attribuito al pisano Giovanni di Balduccio. L’originalità del meccanismo mobile è riproposta variamente tra i numerosi esemplari ancora presenti lungo la dorsale appenninica e, come sopraindicato, il nostro Cristo deposto è senza dubbio riconducibile tra i versanti più colti della produzione plastica trecentesca in Italia centrale, ovvero al fervido ambito creativo di Siena. L’arco cronologico può essere circoscritto tramite l’accostamento diretto con opere annoverate ancora entro il terzo o quarto decennio del XIV secolo, sostanzialmente prima dell’emergenza sociale e artistica generata dalla terribile pestilenza del 1348. Degna di attenzione è la conformità prevalente con la silhouette dei Crocifissi nell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore (Fig.5), nella chiesa di Sant’Antonio a Montalcino (Fig.4) o del Cristo deposto nella chiesa di Sant’Andrea a Palaia. Si tratta di sculture che esprimono la grazia di un goticismo maturo, sia nell’anatomia slanciata del torso e nel perizoma che tende ad aderire sulle gambe appena scostate, sia nella resa quasi lenticolare dei dettagli. La schietta visione del Dramma esibita dal grande Giovanni Pisano (Pisa, 1248 ca. - Siena, dopo il 1314) è ormai declinata in chiave raccolta, subordinata a un temperamento più garbato che ritroviamo già adottato nel 1337 da Lando di Pietro (Siena, 1298 ca. - 1340) per lo splendido Crocifisso che fino al 1944 si ergeva sull’altare maggiore della basilica dell’Osservanza a Siena. Questa rinnovata sintassi avrebbe trasceso gradualmente lo stesso dato naturale, giacché pure nel presente Crocifisso le proporzioni sperticate amplificano sensibilmente l’elegante concezione d’insieme, mentre la sofferenza del volto appare compassata, si direbbe pervasa da un certo pudore di fondo rispetto al modello giovanneo. L’abbandono alla morte è condensato nel trasalire dello sguardo, negli occhi schiusi per inerzia che lasciano scorgere le pupille brune. Lo sforzo dell’afflato allenta la bocca in egual modo, già appesantita da labbra tumide attraverso le quali si intravedono i minuscoli denti intagliati. Il viso emaciato del Crocifisso di Montalcino palesa caratteri piuttosto simili, anche nella barba assai folta e nella spessa resa delle sopracciglia (Fig. 1), così come in molti altri dei possibili paralleli che precedono i tragici eventi dell’epidemia nera di metà secolo. A mio avviso, tuttavia, la riprova più esaustiva per datare il Deposto tra il 1340 circa e il 1350 si può evincere dalla spiccata tangenza stilistica con un’erratica testa di Vescovo (Arezzo, Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna), esito di un artista senese del secondo quarto del Trecento (Fig. 3), e con una delle sculture dell’ultima produzione di Giovanni d’Agostino (Siena, 1311 - 1348 ca.), a lungo capomastro del “Duomo Nuovo” di Siena. Intendo il Cristo benedicente realizzato per la facciata dell’attiguo Battistero (Fig. 2) e che, insieme alle vicine statue di Sant’Apollonia e di un Profeta, è annoverabile ragionevolmente tra il 1340 e 1347.  Nei confronti proposti la morbida variazione plastica dei volti riverbera infatti un ideale quasi pittorico, chiaramente cosciente della stagione gotica rigenerata grazie all’arte di Simone Martini e «chompagni». Non sorprende l’analogia morfologica con i lineamenti del nostro Cristo, perlomeno la singolare sagoma squadrata, i tratti levantini degli occhi, la cannula affilata del naso, le labbra piene e soprattutto la barba fluente, scandita in modo minuzioso fin quasi agli zigomi. È evidente che anche le soluzioni elaborate di questo specifico simulacro rispondono alla sensibilità di un artista dalla formazione eterogenea e che, tangenzialmente, poté venire a contatto con la realtà di un grande cantiere, probabilmente il medesimo in cui operarono Giovanni d’Agostino e la sua bottega.