COPPA
Urbino, pittore vicino a Nicola di Gabriele Sbraghe, 1526-1528 circa
Maiolica decorata in policromia con giallo, arancio, blu, verde, bianco e bruno di manganese
alt. cm 4,5; diam. cm 27,1; diam. piede cm 11,9
Sul retro della coppa, sotto il piede, iscrizione dipinta in blu “Come io sefe die chiari/ linsonia afarauone/ desete uache magre/ e sete grase”
Numero “79” e simbolo inciso nello smalto
Intatta, fatta eccezione per alcune sbeccature all’orlo del piede
Corredato da attestato di libera circolazione
Earthenware, painted in yellow, orange, blue, green, white, and manganese
H. 4.5 cm; diam. 27.1 cm; foot diam. 11.9 cm
On the back, beneath the base, inscription in blue ‘Come io sefe die chiari/ linsonia afarauone/ desete uache magre/ e sete grase’
Number ‘79’ and symbol incised in the glaze
In very good condition, with the exception of some chips to foot rim
An export licence is available for this lot
La coppa mostra un cavetto dalla foggia ampia e liscia orlato da un bordo appena rialzato, e poggia su un piede ad anello basso e svasato.
La scena è tratta puntualmente dal dipinto di Raffaello per le Logge Vaticane raffigurante Giuseppe che spiega il sogno al faraone. La fonte incisoria al momento non ci è nota, e poiché le uniche incisioni che raffigurano tale episodio sono datate già alla fine del ’500 si potrebbe pensare a una visione diretta, da parte dell’artista, delle Logge o dei disegni di Raffaello.
L’episodio è descritto nella Bibbia (Genesi 41, 25-31): poiché il faraone aveva fatto ben due sogni senza che i suoi consiglieri fossero riusciti a interpretarli in modo plausibile, fu introdotto a corte l’ebreo Giuseppe quale esperto. Quando il faraone raccontò di aver sognato sette vacche magre che divoravano sette vacche grasse e sette spighe aride che consumavano altrettante spighe grasse, Giuseppe spiegò che stava per scatenarsi sul paese una carestia: a sette anni di abbondanza, ne sarebbero seguiti altrettanti di carestia, ed era dunque il caso di preparare i magazzini per far fronte a questa sciagura.
La scena mostra il faraone seduto e, in alto, sopra la sua testa, due riserve circolari con le immagini dei sogni. Di fronte Giuseppe, e alle sue spalle tre dignitari di corte che discutono animatamente.
Lo stile del pittore è quello di Nicola Gabriele Sbraghe detto Nicola da Urbino. I volti allungati, i profili sottolineati in bruno di manganese, i piccoli occhi resi in nero con un piccolo tocco di bianco, lo scorcio di paesaggio visto attraverso la finestra: ogni cosa ricorda il maestro urbinate, anche se il raffronto con gli esemplari firmati, senza dubbio a lui attribuibili, non convince del tutto.
Questo piatto è esemplare per una rapida rilettura della storia degli studi sulla maiolica marchigiana del ’500. Nella collezione Charles Damiron l’opera era attribuita all’artista, chiamato allora Nicola Pellipario, e datata verso il 1530. Bernard Rackham, nel suo studio sulla collezione Adda, per il modo di dipingere i volti e di stendere i colori l’uno sopra l’altro ipotizzava la mano di Francesco Xanto Avelli, sotto l’influenza di Nicola Pellipario.
È probabile che l’oggetto sia passato in asta nel 1965, dal momento che lo ritroviamo poi pubblicato nel catalogo della collezione dell’antiquario londinese Humphris nel 1967 con la stessa proposta attributiva di Rackham, anche riguardo alla scritta sul retro del piatto, vicina ai modi di Xanto Avelli.
Oggi, alla luce dei nuovi studi riguardo all’esistenza di altre importanti personalità pittoriche nel Ducato di Urbino negli anni compresi tra il 1525 e il 1530, è d’obbligo una certa prudenza attributiva. È indubbio che la suggestione derivante dalla visione dell’opera porti ad ascriverla a un pittore molto prossimo a Nicola da Urbino, ma la lunga iscrizione sul retro con le lettere così ordinate e il modo di delineare la “e” corsiva con un ricciolo verso l’alto non portano con certezza né a Nicola, né all’Avelli.
Quello che colpisce è la fedeltà alla fonte nella realizzazione della maiolica, che ritroviamo anche in oggetti attribuiti a Nicola da Urbino ispirati ai cartoni per arazzi commissionati a Raffaello Sanzio da Leone X, a noi noti attraverso le incisioni di Agostino Veneziano. Si tratta del piatto nella collezione del British Museum con La conversione di Sergio Paolo e di quello con il medesimo soggetto delle Civiche Raccolte di Arte Applicata del Castello Sforzesco: in entrambi i piatti la scritta ai piedi del trono spiega l’episodio evangelico nel quale l’apostolo converte il proconsole dell’Asia. Dal confronto, emerge l’influenza di Nicola di Gabriele Sbraghe, così come in alcune opere dell’Avelli realizzate in quel periodo storico.
Timothy Wilson (che ringraziamo) ci ha suggerito l'evidente vicinanza di quest'opera con la splendida coppa che precede (lotto 34 di questo catalogo).
L'associazione con il “gruppo del 1526” a cui abbiamo accennato nella scheda precedente deriva, come abbiamo visto, dal confronto con un piatto con soggetto biblico, opera di un pittore attivo nella manifattura eugubina di Mastro Giorgio.
Il piatto di confronto mostra notevoli analogie anche con la coppa in analisi. Il volto del giovane inginocchiato e quello dell’altro personaggio dipinto sul lato destro rivelano forti affinità con quello del protagonista della nostra opera; analogamente il volto del faraone s’avvicina a quello del personaggio più anziano del piatto di confronto.
La coppa s’inserisce pertanto a pieno titolo nel gruppo di opere che John Mallet assegna alla mano di un unico pittore, spesso confuso con Nicola da Urbino per la forte vicinanza stilistica con il maestro urbinate, e che lo studioso inglese chiama “pittore di Enea in Italia”.
La coppa in analisi potrebbe pertanto costituire un fondamentale esempio di opera non lustrata, o non ancora lustrata, del pittore di Fetonte o del pittore di Enea in Italia.
Resta comunque indiscutibile che l’attribuzione troverà nella scritta presente sul retro una validissima testimonianza della calligrafia del pittore stesso.
Le notizie che abbiamo sulla provenienza dell’oggetto, in parte già indicate, sono le seguenti: esso è dato come presente nelle collezioni Damiron e H.S. Reitlinger, fu quindi venduto nel 1938 e poi nel 1954, per entrare a far parte della collezione Adda; di qui, con la vendita della celebre raccolta, la coppa passò poi nella collezione Cyril Humphris nel 1967.