Dipinti Antichi - I

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Giovanni Mannozzi detto Giovanni da San Giovanni

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Giovanni Mannozzi detto Giovanni da San Giovanni

(San Giovanni Valdarno 1592-Firenze 1636)

BALLO DI AMORINI

affresco su embrice, cm 35x70

sul retro iscritto “FECE QUES(T)A OP(E)RA GIOVANNI DA S(A)N GIOVANNI L’ANNO 163(…) A ME LUCA MINI PIEVANO DI S. STEFANO IN PANE”

 

Provenienza:

collezione Conte Piero Capponi, Palazzo Capponi, Firenze;

mercato antiquario, Firenze;

collezione privata, Firenze

 

Esposizioni:

Mostra della pittura italiana del Seicento e Settecento, catalogo della mostra di Firenze, Palazzo Pitti, a cura di Nello Tarchiani, Roma 1922, p. 102, n. 487

 

Bibliografia:

Mostra della pittura italiana del Seicento e Settecento, catalogo della mostra di Firenze, Palazzo Pitti, a cura di Nello Tarchiani, Roma 1922, p. 102, n. 487; O. H. Giglioli, Giovanni da San Giovanni (Giovanni Mannozzi, 1592-1636), Firenze 1949, p. 110, tav. LXXXIII, p. 149; A. Banti, Giovanni da San Giovanni: pittore della contraddizione, schede a cura di M. P. Mannini, Firenze 1977, pp. 79, 240, n. 67; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento, Fiesole 1983, pp. 101, fig. 506; M. P. Mannini, Alcune lettere inedite e un ciclo pittorico di Giovanni da San Giovanni, in Rivista d'arte, 38, 1986, pp. 203-204, fig. 7; G. Cantelli, Repertorio della pittura fiorentina del Seicento. Aggiornamento, Pontedera 2009, p. 239

 

Il dipinto, eseguito con la particolare tecnica a fresco su tegola da Giovanni Mannozzi detto Giovanni da San Giovanni, raffigura con freschezza e humour neo-manierista un allegro e vivace Ballo di Amorini dove su un prato verde con un albero a sinistra si stagliano, contro uno sfondo di cielo, sei amorini che fanno il girotondo e uno che suona il piffero ed indica agli altri il ritmo della danza.

L'opera fu pubblicata per la prima volta nel catalogo della celebre Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento tenutasi a Pitti nel 1922 in cui ne veniva segnalata la prestigiosa provenienza dalla collezione del Conte Piero Capponi di Firenze. Il dipinto, firmato dall'artista sul retro: “FECE QUES(T)A OP(E)RA GIOVANNI DA S(A)N GIOVANNI L’ANNO 163(…) A ME LUCA MINI PIEVANO DI S. STEFANO IN PANE” rappresenta un punto fermo all'interno del catalogo di Giovanni da San Giovanni  ed esemplificativo della rara tecnica su tegola, ricercata e preziosa, utilizzata dal pittore negli anni '30. Tale tecnica, così come quella su piccole stuoie di giunco, costituì un vero successo per le sue caratteristiche di leggerezza e di formato ridotto che ne favoriva la circolazione e la diffusione.

Dall'iscrizione sul retro si apprende inoltre che Mannozzi eseguì il dipinto qui presentato per Luca Mini, pievano della chiesa di Santo Stefano in Pane per cui affrescò anche la cappella della sua  villa degli Arcipressi nella piana di Sesto (Mannini, 1986, pp.203-206). Nell'intenso periodo, scandito dagli importanti lavori per la villa Il Pozzino di Castello eseguiti per conto di Giovan Francesco Grazzini con storie tratte da una volgarizzazione dell'Asino d'oro di Apuleio e nella villa granducale della villa La Quiete, Giovanni Mannozzi lavorò per il pievano Luca Mini, personaggio poco noto che svolgeva tuttavia un ruolo importante a Castello presso il principe don Lorenzo de’ Medici. Mini fu eletto nel 1631 Provveditore di Guardaroba della villa La Petraia e seguì i vari lavori di abbellimento e di restauro della villa medicea fino al 1638, anno in cui risulta esaurito il suo incarico.

Le Storie mitologiche affrescate su embrice e su stuoia per don Lorenzo de' Medici per la villa La Petraia, ora agli Uffizi, rappresentano quindi non a caso un valido termine di confronto per il nostro dipinto in cui se ne rintraccia un simile gusto neo-ellenistico. In particolare nell'affresco su stuoia raffigurante Amore e Pan (Galleria degli Uffizi, depositi, inv. 5420) si può notare un forte richiamo tra la raffigurazione di Amore e i putti danzanti del nostro dipinto, rappresentati nudi, con piccole ali colorate e con le ciocche di capelli un po' scompigliate, come mosse dal vento.

Il momento di vivace attività in cui si colloca la nostra opera, spesa in gran parte nella decorazione in villa, va collocata dopo il ritorno del pittore da un soggiorno a Roma, intrapreso dal 1621 al 1628 in compagnia del giovane allievo Benedetto Piccioli e di Francesco Furini.

L'artista trovò a Roma un terreno ideale per mettere a frutto la sua vena ironica e anti-classica che aveva sviluppato fin dai tempi della sua prima formazione, compiuta a Firenze presso la bottega di Matteo Rosselli, e mediante i suoi numerosi studi da autodidatta che nel fervore della cultura fiorentina gli permisero di stabilire con i suoi committenti un rapporto quasi da pari a pari. Fu un grande esecutore di affreschi, ricordato per la sua dote di "fare presto e bene". La prima commissione granducale ricevuta da Cosimo II risale al 1616 per la decorazione della facciata della casa di piazza della Calza con una complessa Allegoria di Firenze  (oggi frammentaria e staccata) e tra il 1619 e il 1620 va ricordata la sua partecipazione alla decorazione della facciata del palazzo dell'Antella in piazza Santa Croce in cui dipinse insieme ad altri artisti sotto la guida di Giulio Parigi una personale interpretazione del Cupido dormiente di Caravaggio, già in possesso della famiglia dell'Antella (poi collezioni granducali). Durante il soggiorno romano godette della protezione del cardinale Guido Bentivoglio, consigliere artistico della famiglia Barberini, e fu quindi impegnato nel periodo tra il 1623 e il 1627 nella decorazione di alcune sale del palazzo Bentivoglio a Montecavallo (oggi Pallavicini-Rospigliosi) tra cui si ricorda, sul soffitto del salone del piano nobile, il noto Carro della Notte in chiaro contrasto con il classico Carro dell'Aurora di Guido Reni.

L'ultimo incarico di rilievo del pittore giunse dai Medici quando nel 1635 il granduca Ferdinando II gli affidò la decorazione dell'attuale Sala degli Argenti in palazzo Pitti dove gli affreschi, realizzati per celebrare il matrimonio con Vittoria Della Rovere glorificavano le vicende della casata antica di Lorenzo de Medici, alludendo alla necessità di un ritorno ad un'epoca felice “dell’oro”.

 

Si rigrazia Maria Pia Mannini per alcune indicazioni e precisazioni.