PIATTO
CAFAGGIOLO, 1545 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con giallo, arancio, blu, verde, bianco, bruno di manganese.
Alt. cm 4; diam. cm 40,5; diam. piede cm 23,5.
Sul retro del piatto sotto il piede, la scritta “Lacjena di Simone/in gafagiolo” e il monogramma “SP” seguito dalle iniziali “A.f.”.
Il piatto mostra la forma tipica dei bacili di grande diametro con ampio cavetto piano, tesa obliqua, piede ad anello appena accennato. La materia è spessa, il corpo ceramico di colore beige rosato traspare dallo smalto bianco panna poco aderente e, specialmente sul retro, magro e friabile. Sul retro un fitto motivo a petali delineati e decorati in blu di cobalto è riempito da linee tratteggiate color arancio e interessa l’intera superficie della tesa. Il cavetto è decorato “a calza” con filetti paralleli blu. Alcune linee gialle concentriche delimitano l’orlo e il piede, mentre lungo la tesa si scorge, in blu di cobalto, un decoro “alla porcellana” disposto intorno a un motivo a nastro intrecciato, “groppo”, a segnare i punti cardinali. Al centro del piede, poco leggibile, è tracciata la legenda: “Lacjena di Simone/in gafagiolo” associata al monogramma SP e alle iniziali Af.
La scena raffigurata sul fronte è tratta puntualmente da una nota incisione di Marcantonio Raimondi da Giulio Romano (1) (fig. 1) e mostra Gesù seduto mentre la Maddalena, dopo avergli cosparso i piedi di unguenti, glieli asciuga con i capelli. Sulla sinistra si scorge la tavola imbandita riccamente, i commensali che osservano la scena, mentre un giovinetto, con un vassoio ricolmo di vivande, si dirige là dove gli è indicato dal padrone di casa, raffigurato con il capo adornato da un turbante. I personaggi sono variamente atteggiati e intenti nel banchetto. Un cagnolino e alcune brocche riempiono la scena alle spalle della donna inginocchiata. Tutta la rappresentazione è incorniciata da due spessi tendaggi ed è chiusa da una parete scura: vi si aprono due finestrelle da cui s’intravede un paesaggio montuoso.
L’incisione doveva aver avuto una buona diffusione tra le botteghe dei vasai nel corso del Cinquecento: la troviamo raffigurata in una bella coppa faentina, opera autografa di Baldassarre Manara, presumibilmente attorno al 1534 – già nella collezione Zschille di Lipsia e pubblicata nel corpus di Ballardini (2) – e anche nel piatto datato 1528, lustrato dalla bottega di Mastro Giorgio, oggi al Metropolitan Museum of Art di New York (3).
Il monogramma Af è stato collegato da Alinari(4) al nome di Alessandro, figlio di Stefano Fattorini, anche se lo studio della personalità che utilizza tale sigla negli istoriati tardi è stata a lungo indagata per la presenza documentata dei Fattorini a Montelupo in quell’epoca (5).
Al momento si ritiene che i “fornaciari” Pietro e Stefano di Filippo Schiavon, chiamati a lavorare a Cafaggiolo da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici fra il 1498 e il 1499, abbiano dato origine alla manifattura con il loro trasferimento da Montelupo (6). I due sono annoverati nel 1490 tra i 23 orciolai che si impegnano a destinare la produzione dei tre anni a venire ad Antonio degli Antinori di Firenze, che ne monopolizzava la produzione. I loro discendenti, assumendo il cognome di Fattorini (7), ne continuarono la produzione contrassegnando le opere con il monogramma SP (8).
Sono molto pochi i piatti noti che recano la sigla Af unitamente al monogramma SP: il piatto con Pan e Apollo del Victoria and Albert Museum e quello con Muzio Scevola dell’Ashmoleum Museum di Oxford (9), cui si aggiungono un piatto della collezione Dutuit conScena di battaglia, uno con Diana e Atteone presente nel catalogo della collezione Ridout, non illustrato, e infine il piatto del Bargello con raffigurazione di Perseo e Fineo (10). In quest’ultimo due finestre ci fanno intuire un paesaggio in pianura al posto dei monti cuspidati presenti nel nostro oggetto: si ravvisa la stessa impostazione decorativa pur nella diversità dello stile pittorico.
Concordiamo con Marino Marini che, nello studio del piatto con Perseo, afferma come ci si trovi davanti a opere di pittori che ben conoscono il modus operandi tipico delle botteghe produttrici di piatti istoriati. Lo studioso individua sia nel fondale architettonico, sia nella cromia, caratteristiche che richiamano le opere delle botteghe urbinati conosciute, in area fiorentina, in virtù delle importazioni di opere da quella zona. Inoltre rimarca come questa produzione della fornace di Cafaggiolo evidenzi l’apporto di maestranze itineranti, provenienti da Faenza o da Deruta, alle quali questa serie di piatti potrebbe essere attribuita.
Le notizie che riguardano la provenienza del piatto sono poche: l’opera è stata pubblicata da Bellini e Conti (11), i quali ricordano una precedente collocazione nella collezione Guy G. Hannaford, esitata a Firenze nell’ottobre 1969 (12). Nel catalogo dell’asta è sottolineato il valore documentario dell’opera e si cita una non meglio precisata provenienza da una collezione russa ante 1917.
1 BARTSCH, XIV, 23. La composizione deriva dal soggetto affrescato da Giulio Romano e 2 Giovan Francesco Penni, dopo la morte di Raffaello, in una lunetta sopra una finestra della Cappella Massimi nella chiesa di Trinità dei Monti a Roma, insieme ad altri tre episodi. Come descrive Vasari, gli affreschi furono realizzati su commissione di "una meretrice, ancorché oggi sia di Messere Agnolo Massimi". Andati distrutti nell'Ottocento, restano a testimonianza pochi disegni e incisioni. Secondo gli studiosi l'invenzione originale potrebbe attribuirsi a Raffaello (MASSARI 1993, pp. 9 -10).
2 BALLARDINI 1934, ma la monografia di Carmen Ravanelli Guidotti sul pittore faentino (RAVANELLI GUIDOTTI 1998, p. 146 n. 13), che ci ricorda come l’incisione sia stata utilizzata anche da Xanto Avelli in più opere. La studiosa ricorda anche una coppa faentina con lo stesso soggetto ora all’Ermitage (fig 13c).
3 Lehman Collection, inv. 1975.1.1103.
4 ALINARI 1987, pp. 33-35 n. 3.
5 BERTI 1998, pp. 323-326. Studi più recenti stanno focalizzando l’attenzione della ricerca –incentrata prevalentemente sull’aspetto morfologico – a una sempre maggiore possibilità d’identificazione delle specifiche produzioni delle fornaci per determinare il carattere di eventuale unicità contestuale della manifattura o di un suo più generale inserimento all’interno del movimento di maestranze operanti all’interno di uno stesso territorio (CAROSCIO 2004).
6 Nell’atto del Notaio Ser Domenico Bocciati del 1509 riguardo a una controversia patrimoniale nell’elenco dei beni compare una casa con fornace a Chaffagg(iolo) presa a pigione da Pietro e Stefano e Philippo da Monte Lupo (GUASTI 1902).
7 Il cognome in realtà compare nella Decima Granducale del 1640 (GUASTI 1902, p. 122).
8 Il confronto tra le produzioni, in contesto di fornace, ancora in fase di approfondimento grazie ai numerosi studi e agli scavi tuttora in corso di pubblicazione, potrà fornire ancora nuovi chiarimenti sul rapporto tra Montelupo e Cafaggiolo e ancora nuova chiarezza sulle marche presenti nei due centri.
9 Inv. WA1888,CDEF.C410. Probabilmente il più antico della serie, datato 1547 (CORA-FANFANI 1982, p. 150 n. 141). Con questo piatto il nostro esemplare condivide lo stesso decoro alla porcellana delineato sul retro della tesa.
10 MARINI 2012, pp. 220-221 n. 21 e bibliografia relativa.
11 BELLINI CONTI 1964, p. 74.
12 SOTHEBY’S, Firenze, 17 ottobre 1969, lotto 84.