PIATTO
VENEZIA, BOTTEGA DI MASTRO DOMENICO 1570 CIRCA
Maiolica dipinta in policromia con arancio, giallo, verde, blu, bruno di manganese nei toni del nero, marrone e bianco di stagno.
Alt. cm 6,5; diam. cm 34,5; diam. piede cm 10,9.
Sul retro del piatto compare l’iscrizione in blu di cobalto La grecia romana.Ce/fu viollata da tran/. quino.
Il piatto ha un cavetto profondo, un’ampia tesa e poggia su una base ad anello. La decorazione riveste completamente lo smalto stannifero sul fronte del pezzo, occupando tutto lo spazio senza soluzione di continuità, a dimostrare la grande perizia tecnica del pittore, capace di disporre la scena anche nel cavetto senza creare alcuna perdita di prospettiva. Le figure sono disegnate con tocchi in bruno di manganese, ad eccezione di quella di Lucrezia, che ha forme meno rigide ed è pittoricamente più debole rispetto ai personaggi maschili: si noti come sembri perdere consistenza all’altezza dei piedi.
La scena, drammatica, si svolge in un porticato dalla fitta pavimentazione a mattonelle: alle spalle delle figure un tavolo apparecchiato è collocato davanti all’ingresso di un palazzo con un fornice a volta e alcuni archi in rovina sullo sfondo. In lontananza si nota una città turrita ed un monte dalla forma irregolare, con un foro al centro attraverso il quale s’intravede il tramonto. Le figure sono raccolte attorno alla protagonista ormai morta: un soldato le sorregge le spalle, un giovane la guarda con fare disperato, mentre una fanciulla si porta un fazzoletto agli occhi asciugandosi le lacrime e un personaggio barbato accorre ai richiami. Il verso reca un sottile strato di smalto, che assume un tono beige, con alcuni difetti di cottura; lo smalto spesso con vaste colature è decorato con cinque filetti gialli che profilano e ornano la tesa incorniciando l’anello d’appoggio sottile e cilindrico. Il fondo del piede smaltato presenta l’iscrizione in blu: La grecia romana.Ce/fu viollata da tran/. quino.
La vicenda narrata è quella della morte di Lucrezia, descritta da Valerio Massimo nell’opera Atti e detti memorabili degli antichi romani, che diviene simbolo della resistenza alla tirannia o alla sottomissione a costo della vita pur di mantenere il proprio onore. L’episodio è narrato anche da Tito Livio (1): la virtù di Lucrezia nota a tutti i romani e vanto del Marito Collatino, fu violata dal malvagio Sesto Tarquinio, figlio del tiranno Tarquinio Prisco; la donna, presa da vergogna, si uccise davanti al marito e agli amici Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio, non prima di aver chiesto vendetta. Il marito Collatino, per vendicarsi, guidò quindi una sommossa popolare che cacciò via i Tarquini da Roma.
La scena è tratta dall’incisione di Georg Pencz (2) (fig. 1), realizzata tra il 1546 e il 1547, e spesso utilizzata in maiolica da più botteghe rinascimentali. Si veda per esempio come la stessa immagine sia stata riprodotta in una riserva nel centro di uno splendido vassoio urbinate della bottega di Orazio Fontana databile agli anni ‘70 del Cinquecento (3).
Il piatto è conosciuto e trova pienamente riscontro nella produzione della bottega di Domenico de Betti, Mastro Domenico, nel periodo attorno agli anni ‘70 del Cinquecento. Un confronto comunque ci viene dal bel piatto con la Morte di Pelia, del museo di Monaco (4), nel quale la distribuzione dello spazio tra le figure e le architetture, lo scorcio paesaggistico e lo stile, seppure meno calligrafico, molto si avvicinano a quelli del nostro esemplare.
Il piatto è stato pubblicato da Alverà Bortolotto (5) nel suo studio monografico sulla maiolica veneta, e compare anche pubblicato tra i piatti presenti alla mostra tenutasi a Milano negli anni ‘80 dello scorso secolo e dedicata alle immagini architettoniche nella maiolica del Cinquecento (6).
1 TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, I, 58, 6-12.
2 BARTSCH 1803-1821, VIII, p. 342 n. 79.
3 MARINI 2012, p. 250-253 n. 34.
4 HAUSMANN 2002, p. 214 n. 86.
5 ALVERA' BORTOLOTTO 1981, tav. XCV c.
6 BERNARDI 1980, p. 33 nn. 31 l’incisione e 32 il piatto.