COPPA BIANSATA CON COPERCHIO
CASTELLI (O TERAMO?), LIBORIO GRUE, 1730-1740
Maiolica dipinta con colori a gran fuoco e tracce di doratura.
Alt. cm 34; diam. cm 24; diam,. piede cm 15,7; ingombro massimo cm 32
Rara coppa istoriata la cui vasca a campana è modellata al tornio, a parete liscia, con calice rigonfio su basso piede svasato e labbro superiore estroflesso e carenato. Il coperchio rigonfio ha una fascia sagomata sul bordo e la presa centrale a pomello piriforme. Le anse, formate a stampo, hanno forti virgole plastiche e l’attacco inferiore fogliato all’antica, colorate in monocromia blu.
Sulla parete dell’invaso in primo piano sono dipinte due scene espressive dell’Antico Testamento: “L’ebrezza di Noè” e il “Lavoro di Adamo ed Eva”. L’intera scena, disegnata e chiaroscurata in grigio, è colorata con rapide pennellate sui chiari incarnati e con una tavolozza frenata in forti campiture arancio e blu nelle vesti. Dietro, sottili tronchi bruni con ciuffi fogliati verde scuro e arancio filtrano l’azzurro del cielo, il giallo del tramonto e qualche profilo di monte all’orizzonte. Tracce di doratura a freddo sono visibili nelle parti più protette, vicino alle anse.
Il piede e, soprattutto, il coperchio portano un motivo decorativo con cartocci grigi, con maschere ferine rabbiose dorate, incorniciati da gruppi di roselline arancio e blu su un fondo giallo chiaro. E, sul coperchio, forti “Ignudi” di scorcio li accompagnano. Sui cartocci del coperchio si legge la sigla “L.G.P.” in stampatello maiuscolo bruno, sigla nota come “Liborio Grue Pinxit”, firma di uno dei maggiori talenti della celebre famiglia artistica abruzzese.
Le scene figurate sono derivate da incisioni dell’Antico Testamento di Gérard de Lairesse e stampate da Jean Mariette a Parigi, che ebbero numerose riprese e che incontriamo citate su diverse altre maioliche castellane dipinte dal padre Carlo Antonio e dal concorrente Carmine Gentili (1). Le due figure virili classiche sul coperchio sono invece tratte da fogli a stampa di Carlo Cesio che riprendono gli “Ignudi” degli affreschi di Annibale Carracci in Palazzo Farnese.
Le ricerche documentarie ormai provano che Liborio, ultimo figlio del celeberrimo Carl’Antonio (1655-1723) e della sua seconda moglie Orsola de Virgiliis, era nato a Castelli nel 1702 e, dopo aver studiato a Teramo al Seminario e ad Ancona pittura, si era stabilito nel 1726 ad Atri dallo zio Domenico Antonio Grue con i fratelli Isidoro e Aurelio Anselmo, vivendo negli anni trenta a Castelli e dal 1745 alla sua morte (1779 o 1780) a Teramo (2).
Protagonista della produzione artistica ceramica castellana, il suo stile segue fedelmente l’insegnamento del padre nella citazione colta di incisioni derivate dalla cultura pittorica europea e nei motivi decorativi classici o naturalistici di accompagnamento. La sua cultura pittorica gli permette di raggiungere un carattere stilistico pregiato, che se non raggiunge il balenare d’invenzione di Carl’Antonio e del fratellastro Francesco Antonio Xaverio, ne assorbe la lezione (3).
Gli studiosi specialisti hanno sempre sottolineato la sua abilità pittorica: Cherubini espone il suo “franco stile nei panneggi, la calda espressione di affetti ne’ volti” (4), Fittipaldi i “colori sfumati e pastosi di intensa luminosità” (5), la Arbace la qualità di “colorista di talento, accostando ai consueti mezzi toni sfumati grigio cinerino e verde spento anche il vivace contrappunto del giallo e dell’azzurro” (6), “Dei figli di Carl’Antonio il più versato nel dipingere le figure” (7) in Battistella. E risulta dedicato meno di altri all’“interesse naturalistico per la rappresentazione di riflessi luminosi e del ‘colore dell’aria" (8).
La rarità di suoi pezzi marcati conservati in collezioni pubbliche italiane ha reso in passato faticosi questi studi, ma oggi l’indubbia coerenza stilistica dei pezzi siglati “L.G.P.”, come il nostro, con quei pochissimi che portano la firma estesa toglie ogni dubbio attributivo. Difficile resta la determinazione cronologica non essendoci alcun suo pezzo datato (9).
Sono molto noti due pezzi di straordinaria qualità formale firmati da Liborio, conservati in importanti collezioni pubbliche: al Museo di San Martino a Napoli vi è un vaso dal corpo a balaustro, firmato sotto il coperchio “Liborius Grue P.”: in esso la struttura compositiva, lo stile pittorico delle figure dell’istoriato e gli elementi secondari del decoro, come il gioco plastico dei cartigli, i musi ferini e i mazzi floreali sono identici al nostro (10).
E il Victoria and Albert Museum di Londra conserva una magnifica ciotola con coperchio che, decorata con scene figurate e “ignudi” derivate dagli affreschi di Annibale Carracci a Palazzo Farnese (come il nostro), reca sotto il piede la firma estesa “Liborius Grue pinxit” (11): anch’essa mostra un’assoluta familiarità con la nostra (fino alle tracce di doratura a freddo), anche se è indubbio che la sua esecuzione pittorica è più misurata e fine.
Rara la comparsa di altri pezzi affini: una coppia di vasi siglati “L.G.P.”, che presentano somiglianze sia plastiche che decorative al nostro, è andata all’asta nel 1983 a Milano (12) e un’altra (probabilmente la stessa) è comparsa da Christie’s a Londra nel 2012 (13), mentre un alto vaso a balaustro con dipinta la nostra stessa scena biblica è andato all’asta a Parigi nel 2006 (14).
Più recentemente sono state pubblicate due coppe assolute sorelle della nostra, appartenenti alla collezione Matricardi di Ascoli Piceno. Identica la forma “monumentale e solenne”, come scrivono Fiocco e Gherardi, autrici del catalogo con Matricardi, l’impianto decorativo e la formula stilistica tipica di Liborio. Derivano dalla stessa serie grafica le scene figurate della Genesi che decorano il corpo, così come gli ignudi carracceschi eseguiti in monocromia sul coperchio; identico il cartiglio col gatto smorfioso, ma curiosamente queste non recano la sigla dell’autore (15). La datazione agli anni trenta del Settecento che ipotizzano le studiose, al periodo quindi in cui Liborio trentenne vive a Castelli, non ha ragioni documentarie, salvo il poter credere che l’invenzione di questa fine forma plastica e decorativa abbia trovato nei materiali e nelle fornaci di Castelli la migliore culla.
Raffaella Ausenda
1 Serie riconosciuta da GIACOMOTTI 1974, pp. 480-482, n. 1420; poi studiata da BISCONTINI UGOLINI – PETRUZZELLIS SCHERER 1992, pp. 166-173 nn. 63-66 e da BATTISTELLA in DE POMPEIS 2001, p. 87;
2 BATTISTELLA-DE POMPEIS 2005, pp. 119-124;
3 BATTISTELLA-DE POMPEIS 2005, pp. 119-124;
4 CHERUBINI 1865, pp. 14-15;
5 FITTIPALDI 1992, p. 96;
6 ARBACE in AUSENDA 2001, II, p. 46 n. 44;
7 BATTISTELLA 2005, p. 119;
8 FILIPPONI 2015, p. 83. L’ipotesi della collaborazione su certi pezzi con il fratello Aurelio Anselmo, fine pittore naturalistico, per i paesaggi, non ha ragione di essere ricercata per il nostro vaso;
9 Due piattini siglati “L.G.P.” con scene figurate mitologiche e cartigli con maschere ferine, rose e putti alati (diam. cm 17), provenienti dalla Collezione Cora, sono al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (BOJANI et alii 1985, p. 30 nn. 37-38); un piattino “L.G.P” con la figura di Europa appartiene alla collezione Acerbo (ARBACE 1993, pp. 78-79 n. 67); uno siglato con la figura allegorica della Corsica in collezione privata è stato esposto alla mostra castellana a Pescara nel 2005 (BATTISTELLA–DE POMPEIS 2005, p. 120 n. 243); tre mattonelle (di cui due rettangolari con scene della nostra stessa serie biblica) conservate al Museo di San Martino portano il suo nome sul retro (inv. 482 e 483; FITTIPALDI 1992, I, pp. 100–101, nn. 101-102; II, pp. 76–78, nn. 101–102); anche una targa con la Sacra Famiglia è stata esposta nel 2005 (BATTISTELLA-DE POMPEIS 2005, p. 121 n. 245);
10 FITTIPALDI 1992, p. 95 n. 94;
11 RACKHAM 1940, p. 383 n. 1154; Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 13-1867 (alt. cm 30,5);
12 Finarte, Roma, 25 ottobre 1983, lotto 116;
13 Christie’s, Londra, 27-28 novembre 2012, lotto 44;
14 Renaud & Giquello, Hotel Drouot, 28 Aprile 2006;
15 Né traccia di dorature (FIOCCO-GHERARDI-MATRICARDI 2012, pp. 188-190 nn. 139-140.