Ottavio Vannini
(Firenze, 1585-1644)
SAN GIOVANNI EVANGELISTA
SAN LUCA EVANGELISTA
coppia di dipinti ad olio su tela, cm 64x61
(2)
L'inattesa comparsa di questo pendant vale come risarcimento alla emorragia di opere travasate, in questi ultimi anni, dal catalogo del Vannini in quello del suo non scarso alter ego Antonio Ruggieri, l'allievo che per un decennio almeno si prese la briga di perpetuarne la maniera, peraltro sempre – con una sola eccezione – in lavori di propria invenzione (quando, va da sé, egli non si trovasse a dar fine alle pendenze – tante – del maestro defunto). Al proposito, vale la pena di evocare il caso recentissimo del bel Giaele e Sisara del Seminario Arcivescovile fiorentino – parte della celebre serie d'ottagoni lasciata in eredità alla compagnia di San Benedetto Bianco da Gabriello Zuti –, dipinto che Maria Cecilia Fabbri ha potuto passare in toto, su base documentaria, tra le spettanze del Ruggieri – anno 1648 –, confermando sospetti già adombrati circa una partecipazione di quest'ultimo a quella che correntemente passava per una prova estrema d'Ottavio (M. C. Fabbri, in Il Rigore e la Grazia. La Compagnia di San Benedetto Bianco nel Seicento fiorentino, catalogo della mostra (Firenze), a cura di A. Grassi, M. Scipioni, G. Serafini, Livorno, 2015, p. 148).
Per tornare ai due dipinti che qui si presentano, in origine ovali, sono da credere parte di una serie di quattro – mancano all'appello Matteo e Marco –, divisa in epoca imprecisabile.
Le notizie in possesso degli attuali proprietari non consentono di ricostruirne la storia più antica, e valgono soprattutto ad accertare la provenienza fiorentina delle due tele, che sarebbe piaciuto trovare listate nell'inventario dei quadri di qualcuno dei più affezionati collezionisti del Vannini, confortate dalla compagnia di altre opere del maestro: in casa Galli Tassi ad esempio, o in casa Del Rosso (meglio però sarebbe dire, in quest'ultimo caso, nelle 'case' Del Rosso, poiché anche il ramo cadetto della famiglia poteva vantare non poche pitture d'Ottavio: E. Arnesano, Del Rosso (ramo cadetto), in Quadrerie e committenza nobiliare a Firenze nel Seicento e nel Settecento, I, a cura di C. De Benedictis, D. Pegazzano, R. Spinelli, Ospedaletto, 2015, pp. 237-259).
Neppure ci viene in aiuto il referto biografico del Baldinucci, piuttosto avaro, a parte nel caso – macroscopico – dei tanti cimenti per i Del Rosso di via Chiara, nell'elencare lavori del pittore che non fossero murali o grandi pale d'altare di destinazione pubblica. Solo il ricordo generico di "più tele d'Apostoli" eseguite per i Da Bagnano può avere un qualche valore, nel testimoniare della consuetudine del Vannini con le mezze figure in serie.
A consolarci di questa – temporanea, vogliam credere – assenza di dati, interviene però la qualità davvero superba dei due ex ovali, tale da meritar loro la palma tra i quadri da stanza (o comunque di minor formato) licenziati da Ottavio dopo il 1630. Anzi, a voler essere più circostanziati, dopo il 1632, l'anno del San Girolamo di Monsummano, ovvero il dipinto che per primo – almeno tra i databili con sicurezza – mostra compiutamente quei tratti di accresciuto spessore materico e ‘prestezza' di condotta che sono la novità più evidente dell'inoltrata attività del pittore: tratti che senza intaccare la lucidità della visione pittorica del Vannini si mostrano abbinati ad un generale registro di muscolare grandeur.
I due nostri Evangelisti – l'uno, Giovanni, in posa ispirata, l'altro, Luca, concentrato nella scrittura – certificano al meglio una tale svolta, in virtù anche dell'intatta pelle pittorica. Essi paion cavati di peso dalla colossale Madonna e Santi del San Domenico di Pistoia, massimo cimento sacro del pittore nel bel mezzo del quarto decennio (e quasi il manifesto d'una via vanniniana ad un 'barocco' iperdisegnato; in particolare Giovanni ha qui un quasi perfetto corrispettivo nell'angelo che accompagna Santa Francesca Romana); o ancora dall'Ultima Cena di Colle Valdelsa, licenziata nel 1636.
La soluzione di posa del San Giovanni si ritrova poi con incidenza singolare – e varianti più o meno significative – in questa stagione matura del pittore. Segno di come il “tornare e ritornare sopra una cosa sola tante volte” che il Baldinucci riferisce al pittore, si possa estendere dal piano meramente tecnico su cui lo confina il biografo, a quello di una continua, studiosa rimeditazione di propri pensieri formali.
È così che il giovane santo si può leggere d'un fiato, anche nel tono sentimentale severamente accorato, col San Sebastiano del convento di San Marco a Firenze, riconosciuto al Vannini in tempi relativamente recenti (Francesca Baldassari, Carlo Dolci, Torino, 1995, p. 56), e con le altre versioni autografe di tale soggetto: quella ad esempio passata di recente presso Cambi (2 dicembre 2013, lotto 369, olio su tela, cm 89x73, come lavoro del lucchese Pietro Sigismondi).
Filippo Gheri