Giacomo Pacchiarotti
(Siena, 1474 – 1540)
RITRATTO DI GIOVANE
olio su tavola, cm 35,8x23,5
(trasporto ottocentesco dalla tavola originale)
La tavoletta raffigura l’immagine di una ragazza molto giovane ritratta a mezzo busto, secondo la moda degli inizi del secolo XVI, che per gli spiccati caratteri pinturicchieschi si colloca nell’ambiente artistico senese di primo Cinquecento, entro una congiuntura di stile fortemente suggestionata da quanto fatto da Bernardino di Betto nella Libreria Piccolomini in Duomo (1502-1508). A quell’impresa prese parte, soprattutto per i lavori della volta, pure Giacomo Pacchiarotti: un maestro che, per gran parte della sua lunga vita, sarebbe rimasto condizionato da quella esperienza e dalla pittura del Pinturicchio, e cui questo dipinto si può riferire (come suggerito peraltro da Alessandro Bagnoli).
A lungo confusa col più anziano Pietro Orioli, col più giovane Girolamo del Pacchia e col misterioso Matteo Balducci, la personalità artistica del Pacchiarotti è stata ricostruita soltanto da una trentina d’anni, grazie a una lunga serie di studi, avviati da Alessandro Angelini (Da Giacomo Pacchiarotti a Pietro Orioli, in “Prospettiva”, 29, 1982, pp. 72-78) e Fiorella Sricchia Santoro (‘Ricerche senesi’. 1. Pacchiarotto e Pacchia, in “Prospettiva”, 29, 1982, pp. 14-23), come riassunto in un paio di profili biografici dell’artista messi a punto di recente (Serena Vicenzi, ad vocem Pacchiarotti Giacomo, in Dizionario biografico degli Italiani, LXXX, Roma 2014; Gabriele Fattorini, in The Bernard and Mary Berenson Collection of European Paintings at I Tatti, a cura di Carl Brandon Strehlke e Machtelt Brüggen Israëls, Milano-Firenze 2015, pp. 509-510).
Ormai è chiaro che Giacomo - ben affermato nella Siena del suo tempo tanto da affrescare entro il 1509 la volta della “camera bella” del palazzo di Pandolfo Petrucci, ora al Metropolitan Museum di New York, e lavorare tra il 1509 e il 1514 alla perduta decorazione della cappella intitolata dai Piccolomini a Sant’Andrea, in San Francesco - non seppe mai aggiornarsi con decisione sulla “maniera” del Sodoma e di Beccafumi, ma restò sempre ancorato allo spirito umbro dei suoi inizi. Lo dimostra non solo il debole affresco con la Madonna col Bambino e Santi datato 1520 nel museo di Casole d’Elsa, ma anche quello assai più impegnato - e non privo di qualche accenno di apertura sul Sodoma - del refettorio dell’antico monastero di Santa Marta a Siena, che sappiamo eseguito nel 1522 e solo di recente recuperato grazie a un restauro. Le opere più significative del Pacchiarotti risalgono tuttavia al primo decennio del Cinquecento, quando eseguì la pala per l’altare della famiglia Borghesi che si conserva ancora nella chiesa di Santo Spirito a Siena e gli affreschi della pieve di Sant’Ippolito ad Asciano, dove Giacomo guarda alla pittura di Perugino (che nel 1506 ultimò la Crocifissione per la cappella Chigi in Sant’Agostino a Siena) e di recente si è cercato di riconoscere addirittura la mano di Raffaello (cosa assolutamente da escludere).
Questo dipinto, che pare essere stato trasportato sull’attuale tavoletta da una tavola più antica e più spessa, deve risalire ancora al primo decennio del Cinquecento. Per quanto la superficie pittorica abbia sofferto, nelle fattezze della fanciulla si riconoscono quei caratteri un po’ rigidi che sono tipici della pittura di Giacomo Pacchiarotti fin dall’intervento alla volta della Libreria Piccolomini: l’ovale allungato, il nitido disegno degli occhi scuri e degli archi delle sopracciglia, il gusto ornamentale del copricapo e dell’acconciatura. Si direbbe una versione assai meno aulica e più intima dei molti ritratti, anche femminili, che percorrono il ciclo pinturicchiesco della Libreria Piccolomini. A tal proposito merita evidenziare che, stando alle fonti, nei decenni a cavallo del 1500 le tavole con ritratti femminili dovevano essere piuttosto diffuse a Siena, ma oggi sono una vera rarità, pur trovando due testimonianze assai alte nel Ritratto di giovane di Neroccio di Bartolomeo e in quello di Girolamo di Benvenuto che si conservano nella National Gallery of Art di Washington.
Gabriele Fattorini