Manifattura fiorentina, inizi secolo XVII
PIANO DI TAVOLO
commesso di pietre policrome, cm 101x120,5
Opera corredata di attestato di libera circolazione.
Il decoro del piano si compone di un tondo incluso in un cartiglio nel riquadro centrale, contornato da una fascia scandita da ottagoni e rombi alternati. La vivida policromia dell’assieme è ottenuta con l’impiego esclusivo di marmi e pietre di provenienza archeologica, a eccezione del marmo nero di Fiandra che fa da sfondo al centro e delinea le profilature nella fascia di rigiro.
Il tondo centrale e i rombi nella cornice sono di Verde antico, un marmo di provenienza greca largamente impiegato in età romana e molto apprezzato dal Rinascimento in poi. Le cave antiche si trovavano in più località della Tessaglia, e dalla varia provenienza dipendono le diversità di macchia e di tonalità che il Verde può presentare, e che si riscontrano anche nel nostro piano, fra i quattro rombi e il tondo centrale, verosimilmente ricavato dalla sezione di una colonna. Il tondo è profilato da un listello di Giallo antico, dalla Numidia, mentre il cartiglio che lo include è in larga parte formato da più sezioni di Broccatello di Spagna, pietra di notevole impatto decorativo per le screziature dorate e paonazze che la assimilano appunto a un broccato, ampiamente diffusa in età imperiale. Le quattro volute esterne del cartiglio sono di un raro tipo di alabastro, originario della regione dell’attuale Algeria, noto come Alabastro a pecorella, profilato di Rosso antico, dal promontorio del Tenaro in Grecia. Le quattro volute interne sono di Breccia d’Egitto, le cui cave furono molto sfruttate dai Romani. La fascia di rigiro è di Alabastro fiorito, anche questo di provenienza egiziana, mentre i quattro ottagoni angolari sono di Breccia d’Aleppo, dall’isola di Chios in Grecia, pietra questa specialmente ricercata nel riuso dei marmi archeologici (1).
In passato il piano era stato diviso a metà, operazione questa che veniva praticata non di rado (ad esempio era accaduto anche per il piano a fig.5), al fine di ricavare due consolles da un unico piano.
La tecnica esecutiva del piano è quella del “commesso”: sulla lastra di marmo bianco che funge da supporto, dello spessore di circa 5 centimetri, venivano applicate le diverse sezioni lapidee che compongono l’assieme, in precedenza tagliate con precisione a filo secondo i profili previsti dal disegno, e quindi limate lungo lo spessore in modo da garantire la loro perfetta coincidenza. L’incollaggio delle sezioni lapidee sul piano di supporto veniva ottenuto con un adesivo composto di cera e colofonia. Questa tecnica, conosciuta anche come “mosaico fiorentino” in quanto è a Firenze che fu perfezionata raggiungendo livelli di straordinario virtuosismo, discende dall’opus sectile messo a punto nell’ antica Roma, dove dai primi saggi a carattere geometrizzante si passò poi a più complesse composizioni figurative. Una evoluzione analoga si ebbe nella Firenze dei Granduchi medicei, dove le prime realizzazioni a commesso ebbero carattere aniconico, per evolvere poi nel corso del Seicento nelle sofisticate “pitture di pietra”, a tema naturalistico o narrativo, create nell’ esclusiva Galleria dei Lavori fondata da Ferdinando I nel 1588 (2).
Nel periodo iniziale, fra gli ultimi decenni del Cinquecento e gli inizi del secolo successivo, i lavori fiorentini si ispirarono ai modelli in auge a Roma già dalla metà del Cinquecento, sia per i rivestimenti architettonici di pietre policrome, introdotti a Firenze da Giovanni Antonio Dosio (1533-1611) a partire dagli anni ’70, che per i piani di tavolo, che furono a lungo il più ambito genere di arredo lapideo. Non è sempre facile individuare con certezza l’origine fiorentina di tavoli che condividono con quelli romani l’impiego di marmi archeologici e il gusto per composizioni aniconiche, prossime alle tarsie architettoniche. Non è un caso che fra i primi autori di modelli per tavoli di questo genere, sia a Roma che a Firenze, si segnalarono architetti quali il Vignola e il Dosio, del quale restano al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi alcuni progetti per piani di tavolo.
Nel caso del nostro piano più elementi inducono a ritenerlo lavoro fiorentino, a partire dalla tecnica esecutiva, che esclude l’intarsio a favore del commesso. A Roma fu invece prevalente l’intarsio, tecnica anche questa di antica tradizione, che comporta di scalpellare la lastra di marmo bianco ricavandone le cavità, ovvero “casse”, dove inserire le sezioni di marmi policromi, delimitati dai listelli bianchi del marmo di fondo (“cigli”), lasciato a vista (fig.1). Anche la presenza del Nero di Fiandra nel piano riconduce alla precoce predilezione fiorentina per questo materiale, eletto a lastra centrale di uno fra i tavoli più antichi di Palazzo Pitti (fig.2), che condivide con il nostro piano anche l’ispirazione dalle tarsie architettoniche.
Per il tavolo di Pitti il modello sembra essere stato il rigore geometrizzante delle policromie parietali del Dosio, mentre il nostro piano denota un gusto un po’ più avanzato nell’articolato cartiglio centrale, che riecheggia quelli di Giovanni Caccini (1556-1613) sui pilastri e sulle arcate del ciborio di Santo Spirito a Firenze (fig.3), avviato nel 1599 e ultimato nel 1608 (3). Scultore e architetto, il Caccini fu discepolo del Dosio e contribuì a sua volta a diffondere nelle architetture fiorentine il gusto per le specchiature policrome. Nella Cappella Pucci della Santissima Annunziata, avviata dal Caccini nel 1605, ritorna il tema dei cartigli entro riquadrature (fig.4), come pure nelle due edicole con i SS. Pietro e Paolo nella tribuna della stessa basilica, da lui realizzate nel primo decennio del secolo. Attivo inoltre come scultore e restauratore di statuaria antica, in questa veste il Caccini fu in rapporto con Niccolò Gaddi, tra i primi e più raffinati collezionisti a Firenze di tavoli “di belle pietre” (4).
Un ulteriore elemento che allude a Firenze per la paternità del nostro piano è la fascia di rigiro con distanziate e simmetriche figure geometriche, strutturate analogamente in un piano di pietre dure (fig.5) in collezione privata, sicuramente fiorentino, e che ancora ritornanp a contorno di un piano ormai improntato al nuovo gusto naturalistico (fig.6), nel Museo dell’Opificio delle Pietre Dure.
Annamaria Giusti
Firenze 21.4.2018
1) Per le origini e caratteristiche della Breccia d’Aleppo si veda L. Lazzarini, La scoperta dell’origine chiota della breccia d’Aleppo, in Eternità e nobiltà di materia. Itinerario artistico fra le pietre policrome, a cura di A. Giusti, Firenze 1988, pp. 139-168. Per i marmi archeologici in generale, sono testi di riferimento R. Gnoli, Marmora romana, Roma 1988; Marmi antichi a cura di R. Borghini, Roma 1989; C. Napoleone, Delle pietre antiche. Il trattato sui marmi romani di Faustino Corsi, Roma 2001
2) Per la storia della manifattura granducale si veda A. Giusti, L’arte delle pietre dure da Firenze all’Europa, Firenze 2005, con bibliografia precedente
3) Per il complesso dell’altare e ciborio di Santo Spirito, che riecheggia l’illustre modello di quello per la Cappella dei Principi in lavorazione in quegli anni nella manifattura di Ferdinando I, si veda A. Giusti, Tesori di pietre dure a Firenze, Milano 1989, pp. 51-54
4) Del Gaddi e della sua passione per le policromie lapidee testimonia il contemporaneo Agostino del Riccio nella sua Istoria delle pietre, scritta a Firenze nel 1596 e dedicata a quanti si dilettano “delle belle e utili pietre”, si veda l’edizione curata da R. Gnoli, Torino 1996