Donato Mascagni, poi frate Arsenio
(Firenze, 1579 – Firenze, 10 marzo 1637)
GIOBBE SUL LETAMAIO
olio su tela, cm 117x236
JOB ON THE DUNGHILL
oil on canvas, cm 117x236
Il soggetto, piuttosto raro nella storia dell’arte, raffigura un episodio dell’Antico Testamento tratto dal Libro di Giobbe. Giobbe, uomo integro e timorato di Dio, onorato di numerosa famiglia, greggi e beni, è messo alla prova e portato alla rovina. Dopo aver subito la perdita di tutte le proprietà e dei suoi stessi figli, accetta umilmente la propria sorte, senza imprecare contro il Signore. Satana lo tenta nuovamente, colpendolo con una malattia purulenta, una sorta di lebbra, dalla punta dei piedi alla cima del capo.
La scena ritratta riguarda i versetti 2, 7-12. Giobbe, seduto sul letamaio (il testo biblico parla in verità di cenere), cerca di sopportare la propria condizione, mentre la moglie lo schernisce: “Rimani ancora fermo nella tua probità? Impreca a Dio e muori!”. Tre amici, raffigurati sulla sinistra, vengono frattanto a fargli visita, per compiangerlo e consolarlo. Tra questi e Giobbe seguiranno discorsi e dispute, sfoghi e domande rivolte al Creatore, fino all’intervento divino, a conclusione della prova, che reintegrerà Giobbe nella sua fortuna. Il disegno del Signore è imperscrutabile, e il dolore va accolto umilmente, al pari del bene, e con paziente sopportazione: questo il senso del testo sacro e il monito che il dipinto comunica. Giobbe incarnando un ideale di suprema pazienza, china il capo al volere divino e si conferma uomo pio e giusto.
L’opera è da ricondursi su base stilistica alla mano del pittore fiorentino Donato Mascagni (c. 1570 - 1637). Formatosi presso la bottega di Jacopo Ligozzi, ove fu posto da fanciullo, collaborò alla decorazione della Tribuna degli Uffizi (1584) e agli incarichi per l’ingresso in Firenze della granduchessa Cristina di Lorena (1588-89), oltre che alla pittura dei quadroni in lavagna del Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio raffiguranti l’Ambasceria di Bonifacio VIII e l’Incoronazione di Cosimo I granduca di Toscana. Al 1593 risale l’iscrizione all’iscrizione all’Accademia del Disegno, che contraddistingue l’avvio di una autonoma attività artistica. Il primo incarico di rilievo a lui affidato riguarda l’esecuzione dei dipinti per il monastero camaldolese di Volterra, commissionatigli tra il 1595 ed il 1599 dall’abate Crisostomo Ticci. Questi includono il ciclo di affreschi con storie di santi del refettorio, che ospitava anche la grande tela con le Nozze di Cana adesso ubicata nella sala del consiglio comunale; la Natività della Vergine del 1599, oggi presso la Pinacoteca di Volterra; e un Giobbe sul letamaio, datato 1595, ricordato da Filippo Baldinucci e dal Cinci come “un miracolo dell’arte”. Il dipinto, attualmente conservato presso il Palazzo dei Priori, fu eseguito per il quartiere dell’abate Ticci.
La presente tela si dimostra significativamente vicina a questa importante opera, nella scelta compositiva e stilistica. I personaggi e la scena ritratti sono gli stessi, con la differenza che a Volterra la scena si allarga sulla destra a raffigurare la rovina di Giobbe, e qui due astanti. Analoga la fisionomia e l’incedere incalzante della moglie, che richiama i tipi del Ligozzi, mentre diversa è la posa del protagonista, che nel nostro dipinto stringe le braccia e i pugni nello sforzo di sostenere il dolore e di accettarlo, un gesto inconsueto che Mascagni rappresentò anche in un’altra sua opera, la celebre Storia del conte Ugolino. I caratteri dello stile sono tipici dell’artista, con il disegno un po’ geometrizzante delle vesti, la tavolozza squillante dei rossi e dei gialli, i toni del violetto.
Rispetto al dipinto volterrano di analogo soggetto il nuovo quadro appare più maturo, per l’emergere di un gusto neomanierista, più sintetico e concentrato sulla rappresentazione dei protagonisti, rispetto ai modi più descrittivi dell’opera destinata all’abate Ticci.
Il percorso dell’artista, del tutto originale e per certi versi “contrario ai tempi”, sarà proprio contraddistinto dalla evoluzione verso una pittura “anti-naturalistica” e protocinquecentesca, dal disegno schematizzante e dalle accese gamme cromatiche.
Il dipinto è da ricondursi ad una committenza illustre, dichiarata dallo stemma effigiato al centro dell’opera.
Evidente è la connotazione fortemente religiosa dell’opera, che non lascia dubbi circa l’impegno e la devozione di chi lo richiese. Profilo che contraddistinse lo stesso artista, che successivamente alle frequentazioni camaldolesi, a Volterra e a Firenze (qui affrescò nel 1600 alcune lunette presso il monastero di Santa Maria degli Angeli) maturò una vera e propria vocazione, al punto che nel 1605 pronunziò i voti presso la chiesa fiorentina della Santissima Annunziata, ritirandosi a vita eremitica come servita presso il convento di Monte Senario. Divenendo frate non abbandonò la professione, che riprese e mantenne, a gloria della sua stessa congregazione. Proprio alla Santissima Annunziata subentrò a Bernardino Poccetti attorno al 1612 nella dipintura del chiostro, e realizzò varie numerose altre opere, fino alla chiamata in Austria, dove riscosse uno straordinario successo, come pittore dei principi vescovi di Salisburgo. Qui decorò la residenza di Hellbrunn (1616-1619) e il Duomo cittadino, sviluppando una pittura in chiaro fortemente visionaria e di grande eleganza, di gusto tardo manierista. Rientrato definitivamente a Firenze attorno al 1630, vi morì nel 1637.
Personalità singolare ed intrigante, per i percorsi di vita e per la duplice vocazione professionale e religiosa, Donato Mascagni è un artista di qualità, la cui indagine può ancora riservare interessanti scoperte.
Lucilla Conigliello