Arte Moderna e Contemporanea

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Jacques Villegle' ©  
(Quimper, 1926)

JACQUES VILLEGLE'

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JACQUES VILLEGLE'

(Quimper 1926)

Mr Baltard

1979

decollage su tela

cm 51x61,5

firmato in basso a destra

al retro titolato, datato (mars 1979)

 

Mr Baltard

1979

decollage on canvas

51x61.5 cm

signed lower right

on the reverse side titled and dated (mars 1979)

 

Jacques Villeglè

 

 

All’École des Beaux-Arts di Rennes lei conobbe Raymond Heins, con cui strinse un sodalizio fondamentale per lo sviluppo delle vostre reciproche carriere. Che cosa vi accomunava?

 

Condividevamo le stesse domande riguardo al nostro futuro: che cosa fare? Che cosa dipingere? E anche l’idea di non voler imparare un mestiere. Il nostro rapporto di amicizia e di affinità artistica si alimentava grazie alle lunghe passeggiate che facevamo lungo la Loira, e proprio una di queste rappresentò un momento di svolta fondamentale. Era il gennaio del 1947, e fummo impressionati dallo “spettacolo” dei cantieri navali di Nantes, dal rumore delle seghe elettriche, dal movimento delle gru e del ponte trasbordatore. Fu quello il momento in cui ci apparve chiaro per la prima volta che la percezione diretta doveva essere ricercata e valorizzata a discapito del “fare” e delle arti della trasposizione, e di ogni premeditazione.

 

 

 

Che è poi il concetto che sta alla base della pratica di staccare i manifesti lacerati dai muri delle città. Si ricorda la prima volta in assoluto in cui lo avete fatto?

 

Certamente: è stato a Parigi, nel febbraio del 1949. Si trattava del manifesto di uno spettacolo, in cui comparivano solo alcuni frammenti tipografici, che danno il titolo a quella prima opera: Ach Alma Manetro. Ci colpirono moltissimo le lacerazioni della superficie del manifesto, che sembravano quasi delle ferite cromatiche. All’epoca, ciò che amavo di più era il collage cubista, e i caratteri tipografici ne rappresentavano un elemento che continuava a conservare una grande attualità; dunque, questo primo manifesto rubato dalla strada aveva qualcosa di post-cubista.

 

E quello fu un episodio isolato, che solo in seguito rielaboraste come pratica artistica vera e propria, o fu da subito il punto di partenza di una ricerca poi proseguita per decenni?

 

Fu un punto di partenza: esattamente come Mallarmé componeva le sue poesie utilizzando il colpo di dado e attingendo le parole dai manifesti appesi per le vie di Parigi, da quel momento noi cominciammo a raccogliere ciò che la strada ci offriva. Il manifesto è sempre stato molto importante, sia per la poesia che per l’arte figurativa della nostra epoca. Io capii subito che attraverso di esso potevo scrivere un nuovo capitolo della storia dell’arte, che documentasse il cambiamento delle parole e anche dei colori.

 

La sua opera, Villeglé, si distingue da quella degli altri affichiste per la sistematicità…

 

Ho capito presto che attraverso i manifesti strappati riuscivo a cogliere quella che era la realtà urbana e che potevo documentarne i cambiamenti utilizzando i décollage secondo ripartizioni estetiche o di soggetto, così da creare un “catalogo tematico” con cui ripercorrere la storia della tecnica tipografica e della trasformazione dei colori.

 

La sua esperienza come affichiste si chiude definitivamente nel 2003. In che modo?

 

Nel 2003 mi trovavo a Buenos Aires. Negli ultimi anni era diventato difficile rintracciare manifesti lacerati in città come Parigi, troppo pulite e ordinate. Qui, invece, c’era molto materiale: percorsi chilometri e chilometri nei sobborghi, e in qualche angolo rinvenni dei vecchi manifesti realizzati prima della crisi economica che stava soffocando l’Argentina. Erano ricchi, pieni di lettere, mentre quelli più recenti, stampati su carta di scarsa qualità, somigliavano alle affiche che avevo staccato agli esordi, erano cioè fatti alla maniera antica, usando i caratteri di legno: è stato come se un ciclo si chiudesse.

 

Ad un certo punto, partendo da una posizione di semplice “osservatore attivo” della realtà per mezzo dei manifesti lacerati, lei ha iniziato un nuovo percorso estetico dando vita ad un peculiare vocabolario socio-politico, che ora utilizza come strumento espressivo in quelle che sono vere e proprie opere pittoriche.

 

Nel 1969 vidi nella metropolitana di Parigi una scritta di propaganda contro Nixon realizzata attraverso un grafismo molto particolare, che ricorreva a simboli politici come le tre frecce dell’ex Partito socialista, la croce gaulliana, la svastica nazista, eccetera. La forza simbolica di quegli ideogrammi mi colpì al punto che cominciai ad elaborare un vero e proprio alfabeto. Dieci anni dopo l’ho utilizzato per la prima volta per un’opera pittorica, attraverso cui offrire la mia visione della realtà.

 

Dicembre 2014 da un’intervista di StileArte