Capolavori da collezioni italiane

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COPPIA DI BASI DI CANDELIERE, SEVERO CALZETTA DA RAVENNA E BOTTEGA, PRIMA METÀ SECOLO XVI

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COPPIA DI BASI DI CANDELIERE, SEVERO CALZETTA DA RAVENNA E BOTTEGA, PRIMA METÀ SECOLO XVI

in bronzo patinato, su pianta triangolare. La parte inferiore presenta tre facce di forma rettangolare, ciascuna decorata con lo stemma della famiglia Frescobaldi entro ghirlanda d’alloro affiancato da una coppia di putti alati, impreziosite nei tre punti di unione da sculture di leonesse a tutto tondo rappresentate nell’atto di arrampicarsi; sul piano un nodo centrale in forma di vaso è contornato da tre nudi virili inginocchiati, il braccio sinistro levato nell'atto di sorreggere il piano superiore, sul quale poggiano tre amorini anch’essi inginocchiati e con il braccio piegato sopra la testa, posti intorno ad un elemento centrale a balaustro sormontato da piattello circolare, cm 36x25x25

 

Provenienza

Firenze, Marchesi Frescobaldi (?);

Firenze, Collezione Carlo De Carlo;

Brescia, Collezione privata

 

Bibliografia

Eredi Carlo De Carlo. Parte seconda. Importanti sculture dal Medioevo al Rinascimento, mobili, bronzi, oggetti d’arte, maioliche, rari dipinti di maestri primitivi, Semenzato Casa d’Aste, Firenze 2001, lotto 59

 

La fortuna e la diffusione del bronzetto in Italia nel Rinascimento rappresenta un tema ampiamente documentato e studiato sotto i molti punti di vista che compongono questo importante fenomeno culturale e di costume. È intorno al 1450 che iniziano le testimonianze di quest’arte, individuando convenzionalmente come opera prima una statuetta in bronzo, alta circa 35 centimetri, raffigurante il monumento equestre di Marco Aurelio allora visibile a Roma presso la basilica di San Giovanni in Laterano, realizzata da Antonio Averlino detto il Filarete e dallo stesso donata a Piero de’ Medici nel 1465. Questo se per bronzetto s’intende una statuetta di dimensioni ridotte, entro i 40 centimetri di altezza circa, eseguita in bronzo con la tecnica della fusione a cera persa, raffigurante un soggetto sacro o profano, concepita come un soggetto autonomo destinato ad una fruizione privata in un contesto domestico. Per inquadrare meglio la realizzazione di un simile manufatto vanno qui ricordate due condizioni essenziali venutesi a creare in quegli anni: da un lato la riscoperta umanistica dell’antichità classica, dall’altro il recupero del bronzo e delle sue tecniche di fusione quale nobile materia della scultura, entrambe legate alla Firenze della prima metà del Quattrocento e al nome del più grande scultore dell’epoca, Donatello.

Ma Donatello verso il 1444 si stabilisce a Padova, e con lui nella città veneta si riproducono le stesse condizioni che centoquarant’anni prima aveva determinato la presenza di Giotto: si riaprono i cantieri, ripartono le officine, si attivano le fonderie. Chiamato dai francescani per l’altare di Sant’Antonio, la più grande impresa in bronzo dalla fine dell’antichità, Donatello supera se stesso nel Monumento equestre a Gattamelata, completato nel 1453, opera che suscita grande euforia culturale a Padova e la proietta come città di assoluto richiamo, ponendola tra l’altro al centro di una rete di commerci e di committenze rivolta anche verso l’estero. Una volta indicata la strada, Donatello lascerà spazio alle autonome ricerche di altri maestri, a partire da Bartolomeo Bellano, dando così il via alla lunga stagione del bronzetto padovano, attraverso il quale gli artisti sembrano voler interpretare in ogni modo la lezione donatelliana. E ragioni di mercato e di collezionismo stanno alla base di questo enorme successo.

Accanto al Bellano troviamo Andrea Briosco detto il Riccio (1470-1532), scultore che proprio nell’arte del bronzo trovò la sua piena realizzazione artistica, cercando la sintesi tra il classicismo mantegnesco e la statuaria tardo-romana, autore tra l’altro dello straordinario Candelabro pasquale per la basilica del Santo, terminato nel 1516. E proprio al Riccio per lungo tempo fu attribuita gran parte della produzione realizzata da un suo “collega”, quel Severo Calzetta da Ravenna (1465/1475 - ante 1538) presto dimenticato sia dai suoi contemporanei che dalle generazioni successive, riscoperto solo nel 1935 da Leo Planiscig a seguito dell’individuazione della sua firma in un mostro marino della Frick Collection di New York. Severo, formatosi probabilmente a contatto della bottega dei Lombardo, che negli anni ottanta del quattrocento avevano lavorato a Ravenna, compare per la prima volta a Padova nel 1500, impegnato nei lavori per il rifacimento dell’Arca nella basilica del Santo, incaricato di eseguire una scultura in marmo raffigurante San Giovanni Battista. In quegli anni fu sicuramente in contatto con l’umanista napoletano Pomponio Gaurico, che nel suo trattato De Sculptura ne tesse le lodi alla luce di un’ottica classicistica, considerandolo una delle personalità più complete nel panorama padovano: “Mi sembra che Severo da Ravenna abbia riunito in sé tutte le qualità della statuaria: bronzista, scultore in marmo, cesellatore, scultore su legno, modellatore e pittore egregio. Infatti se mi si chiedesse come vorrei che fosse lo scultore, risponderei che lo vorrei proprio come conosco Severo, se fosse anche letterato” (1). Nel periodo padovano Severo dovette mettere a punto una serie di tipologie di bronzi che incontrarono grande fortuna presso i circoli colti e che furono ripetute a lungo da una bottega di notevoli dimensioni da lui avviata al suo ritorno a Ravenna e portata avanti dal figlio Niccolò, che continuò per anni a diffondere i modelli paterni. Si è ipotizzato che, nell’ambiente padovano, sia stato proprio lui il primo artista a mettere a punto le figure di satiri, idre, chimere e altri mostri, soprattutto legate a oggetti di uso pratico, quali lampade, candelabri e calamai, esercitando anzi un notevole influsso sullo stesso Riccio. Le sue figure erano caratterizzate da una muscolatura insistita, da una minuziosa finitura di barbe e capelli riconoscibili per la cosiddetta forma “a vermicello”, da lunghe dita nervosamente modellate. Severo lasciò Padova tra il 1509 e il 1511 per tornare nella sua città natale, Ravenna, dove rimase fino alla morte proseguendo una carriera probabilmente non particolarmente brillante, anche se tra i suoi clienti nel 1527 figura quella Isabella d’Este, duchessa di Mantova, che in quegli anni funge da catalizzatore per la vita artistica e culturale dell’Italia centro-settentrionale. È unanimemente riconosciuto dagli studiosi contemporanei che Severo abbia gestito la più grande e prolifica bottega dell’area padana e che in questa abbia fuso una quantità di bronzi molto superiore a quella del Riccio. Nel corso degli anni raccolse una moltitudine di modelli antichi, tra cui alcuni di grandi dimensioni, che variò grazie alla sua fervida immaginazione. Severo era chiaramente interessato alla funzionalità dei prodotti eseguiti nella sua bottega, dimostrando una notevole abilità nel creare insiemi complessi e a volte bizzarri in cui, però, ogni elemento rivestiva una sua funzione pratica.

L’attribuzione delle opere in esame a Severo da Ravenna e alla sua bottega si basa su una serie di confronti iconografici e stilistici che lasciano pochi margini di dubbio, ed è confermata anche dall’importanza della committenza, testimoniata dalla presenza più volte ripetuta dello stemma araldico dei Frescobaldi (2) (vedi foto 1), una delle maggiori famiglie nella storia politica, economica e sociale della città di Firenze, storicamente impegnata nel commercio, nel prestito bancario e, precocemente rispetto agli altri, nell’agricoltura nelle proprie vaste tenute di campagna. Del resto le commissioni nobiliari alla bottega di Severo sono ben testimoniate oltre che dal lavoro citato per Isabella d’Este, da un Candeliere a sirena con lo stemma della famiglia Chigi e dalla presenza del calamaio con Spinario posto su un tavolo nel ritratto del cardinale penitenziere Antonio Pucci (3).

L’impianto decorativo delle nostre basi trova pieno riscontro in un candeliere oggi conservato presso il museo del Bargello a Firenze (vedi foto 2), concordemente attribuito a Severo da Ravenna e bottega (1510-1540) (4), con il quale condividono l’originale impostazione tripartita, la presenza di sostegni centrali sagomati in forma di vaso, e soprattutto la disposizione a triangolo di figure realizzate a tutto tondo, non soltanto simili ma addirittura sovrapponibili per quanto riguarda la sezione con gli amorini inginocchiati.

Anche le placche rettangolari montate a formare la base, quelle centrate dallo stemma della famiglia Frescobaldi, rimandano direttamente all’opera di Severo, spesso utilizzate soprattutto nella realizzazione di cofanetti, come ad esempio in quello conservato al Bargello (5), dove il modello delle nostre placche è utilizzato per la realizzazione del coperchio (vedi foto 3). Detto che tale cofanetto ha avuto una lunga storia attributiva, associato oggi all’artista ravennate passando dai nomi di Donatello, Bramante, Desiderio da Firenze e Riccio, va ricordato che lo stesso è conosciuto in almeno 35 versioni oltre a placche isolate con il medesimo disegno o con minime variazioni, dove la testa di Medusa può essere sostituita da un busto classico, un busto femminile con tunica, o appunto uno stemma gentilizio del mecenate o del committente.

Appena sopra le basi triangolari risaltano in tutta la loro plasticità tre nudi virili inginocchiati, figure che fanno chiaro riferimento al noto bronzetto di Severo raffigurante Atlante che sorregge la volta celeste, fusione di cui un ottimo esemplare è conservato alla Frick Collection di New York (6), di cui esiste una variante sovrapponibile alla nostra conservata al Metropolitan Museum (7), in cui Atlante tiene la mano sinistra non in terra ma sul ginocchio (vedi foto 4).

Ulteriore conferma per l’attribuzione delle nostre basi a Severo viene dalle parti forse meno visibili, cioè quei sostegni realizzati in forma di balaustro che costituiscono l’anima portante dell’intera composizione. In questo caso un confronto interessante può esser fatto con una Sezione di un candeliere (vedi foto 5) conservata presso il Museo Bardini di Firenze (inv. 904). Considerato dallo stesso Bardini un portapenne o un calamaio, è stato a ragione riconosciuto come la sezione inferiore di un candeliere, originariamente composto da diverse parti fuse separatamente e poi sovrapposte, sul modello di quello già ricordato del Museo del Bargello, composto da tre piani sovrapposti. Pur trattandosi di un elemento apparentemente secondario, sono diversi gli elementi che ci portano alle opere certe di Severo, quali la base circolare modanata, la puntinatura che decora la parte superiore della superficie, ma soprattutto le foglie d’acanto incise nel mezzo, dalle punte acuminate.