Capolavori da collezioni italiane

7

Ignazio e Luigi Ravelli

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Ignazio e Luigi Ravelli

(Vercelli 1756-1836 / 1776-1858)

COMMODE A MEZZALUNA, FINE SECOLO XVIII

lastronata in palissandro e intarsiato in legni dipinti, piano in marmo Verde delle Alpi, cm 96x117x56

 

Bibliografia

AA.VV., Genio e maestria. Mobili ed ebanisti alla corte sabauda tra Settecento e Ottocento. Catalogo della mostra (Venaria Reale, 17 marzo-15 luglio 2018), Torino 2018, p. 288 cat. 67

 

Questa elegante commode lignea intarsiata, rappresentativa in toto dello stile neoclassico italiano (1700-1800), è frutto del lavoro congiunto di due noti ebanisti piemontesi: Ignazio Ravelli (1756-1836) e suo figlio Luigi (1776-1858), attivi a Vercelli tra la seconda metà del Settecento e l’inizio del secolo successivo. Sono anni in cui il panorama dell’ebanisteria e dell’arredamento è fortemente influenzato dallo stile francese di Luigi XVI e dal recupero di quei valori di bellezza, purezza, semplicità, ordine e razionalità tipici dell’antichità classica. Simili caratteristiche vengono assimilate a seconda dell’estro creativo di ogni artista in molteplici espedienti decorativi: rosoni, trofei, fregi, foglie d’acanto, greche, ovuli, capricci architettonici e scene mitologiche. Nella Lombardia asburgica l’arte dell’intaglio raggiunge la sua massima espressione nelle opere di Giuseppe Maggiolini, dalle linee raffinate e dalla precisa esecuzione. È in questo clima che si colloca Ignazio Ravelli, che rielabora l’operato di Maggiolini prediligendo però scene con vedute architettoniche fantasiose, come capricci di rovine, e prendendo spunto dalle incisioni di Giambattista Piranesi, Ferdinando Galli di Bibbiena e Vincenzo Mazzi. Nato a Vercelli nel 1756, fin dalla tenera età manifesta una spiccata predisposizione per il disegno e l’architettura. Alcune fonti documentarie confermano che già nel 1789 lavora per la Corte Sabauda, ottenendo a partire dal 1791 la pensione Regia e il consenso per esporre lo Stemma Reale all’interno della sua bottega. Peculiare è l’aneddoto che ruota intorno alla sua decisione, presa in giovane età, di dedicarsi all’arte: nel corso della visita del Re presso la sua città natale, l’ammirazione dimostrata dal Sovrano per i lavori di Paolo Sacca eseguiti per il Duomo di Sant’Andrea porta il Ravelli a intraprendere la carriera di ebanista al fine di eguagliare, e possibilmente anche di superare, il suo predecessore. Di fatto, nel 1829 sarà proprio lui a restaurare i cori lignei che avevano tanto stupito il Sovrano, accrescendo la sua fama negli anni successivi grazie a quadri in tarsia che lo porteranno a raggiungere la notorietà in molti paesi europei. Anche la testimonianza del Conte Finocchietti, nobile toscano di origine francese, avvenuta dopo circa quarant’anni della morte del maestro, comprova l’elevata fama e bravura raggiunta dal Ravelli nel corso degli anni, le cui opere risultano esposte nei salotti più in voga di Vienna, Parigi e Madrid.

L’inconfondibile stile chiaroscurale del maestro è evidente anche in questa “demilune”. Lo schema compositivo impiegato anche in questo caso prevede un’anta centrale celante due cassetti anch’essi intarsiati e due ante laterali, ciascuna decorata con un motivo ad ovulo istoriato, incorniciato da greche «tridimensionali» su fondo di legno tinto in verdino e articolate dallo stesso numero di meandri sia in orizzontale che in verticale; un’impostazione ripresa anche dal figlio in una commode conservata al Museo Civico di Palazzo Madama a Torino (cfr. R. Antonetto, 2010, pag. 332 fig. 14 A). Nella commode qui presentata, il medaglione centrale è dominato da un singolare personaggio posto di schiena immerso in un contesto prettamente archeologico; identificabile in un soldato o in una divinità, grazie alla lancia tenuta nella mano destra, la figura contempla una fuga di misteriosi edifici sotto un cielo abbagliante. Un soggetto, questo, che compare anche sull’anta di destra di una commode in collezione privata (cfr. R. Antonetto, 2010, pag. 331 fig. 11) e che evoca fortemente lo stile del metafisico De Chirico. Le ante laterali presentano una decorazione di due marine molto più semplici a livello di resa e di soggetto, nelle quali compaiono rispettivamente una fortezza e un torrione. Incoronata da un piano in marmo verde Alpi, l’opera testimonia un’impareggiabile maestria non solo nella modulazione dei chiaroscuri, scanditi da raffinati passaggi tonali dell’intarsio, ma soprattutto nell’eleganza della composizione delle venature delle essenze lignee impiegate.

 

Bibliografia di riferimento

V. Viale, Mostra del Barocco piemontese, Torino 1963, vol. III, Mobili e intagli, tavv. 217-218;

R. Antonetto, Minusieri ed ebanisti del Piemonte, Torino 1985, 350-352;

E. Quaglino, Il mobile piemontese, Novara 1997, p. 156;

R. Antonetto, Il mobile piemontese nel Settecento, Torino 2010, pp. 330-333