Artemisia Gentileschi
(Roma, 1573 - Napoli, c. 1654)
CLEOPATRA
olio su tela, cm 70x75
CLEOPATRA
oil on canvas, 70x75 cm
Esposizioni
Artemisia (1573-1654), mostra di Parigi (Musée Maillol), a cura di R. P. Ciardi, R Contini, F. Solinas, Parigi 2012.
Artemisia. La musa Clio e gli anni napoletani, Pisa, Palazzo Blu, 23 marzo - 30 giugno 2013.
Bibliografia
F. Solinas, in Artemisia (1573-1654), catalogo della mostra di Parigi (Musée Maillol), a cura di R. P. Ciardi, R Contini, F. Solinas, Parigi 2012, pp. 130-131;
V. Farina, "A Napoli con furore": doso bras de madurez de Artemisia Gentileschi, in "Ars Magazine", ottobre-dicembre 2022, pp. 116-117;
M.C. Terzagni, in Artemisia Gentileschi. Héröine de l’Art, catalogo della mostra (Paris, Musée Jaquemart-André), a cura di P. Cavazzini, M.C. Terzaghi, Bruxelles 2025, pp. 56-59, 158.
Sono a disposizione su richiesta la riflettografia e la radiografia eseguite da Art Test Firenze di Emanuela Massa & C.
A mezzo busto, con il capo appoggiato tra le mani e il gomito sopra un cuscino di damasco rosso, la bella e malinconica Cleopatra regge l’aspide velenoso che le insidia il seno scoperto con un morso ferale. La prima citazione moderna della tela risale a Raffaello Causa, che nel 1975 la attribuiva ad Artemisia Gentileschi con una intuizione critica notevolissima, giacché all’epoca ben poco era noto della pittrice. Il parere venne quindi registrato e validato da Francesco Solinas, cui si deve ad oggi lo studio più accurato sul dipinto, in occasione della sua unica apparizione in un contesto espositivo, la mostra parigina del 2012 (Solinas 2012, pp. 130-131). Dieci anni più tardi l’opera venne messa in relazione con un notevole dipinto raffigurante la Maddalena penitente (ora in Collezione Robilant + Voena), pubblicato come autografo di Artemisia Gentileschi da Viviana Farina (Farina 2022). Nella radiografia della Maddalena (Farina 2022; Terzaghi 2025, p. 59) è chiaramente visibile un cambiamento di iconografia: al posto del teschio, infatti, la figura femminile regge un aspide tra le mani. Il rapporto dell’opera con la Maddalena Robilant + Voena, la cui autografia è stata in seguito sempre ribadita (M.C. Terzaghi, in Fede Galizia, Orsola Maddalena Caccia, Artemisia Gentileschi, Same Time, Different Stories, a cura di V. Brilliant, M. Voena con S. D’Italia e M.C. Terzaghi, Milano 2023, pp. 28-37 e Terzaghi 2025), e la cui qualità pare indiscussa, merita un discorso più approfondito. Dal punto di vista iconografico le due opere appaiono assolutamente gemelle e sovrapponibili finanche nella posa delle mani che sfiorano gli oggetti, che ne differenziano la lettura iconografica: l’aspide e il teschio. Altro dettaglio che sottolinea la diversa iconografia sono le perle nei capelli della regina, assenti in quelli della santa penitente. A fronte di queste minime varianti, la resa pittorica dei due dipinti non è identica: il panneggio del drappo giallo che ammanta Cleopatra è semplificato rispetto a quello ricco e sontuoso di Maddalena, soprattutto nella zona più bassa; al contrario, la zona destra del volto della regina è più leggibile e meno inghiottita dall’ombra di quella della santa. Le due tele permettono di mettere in evidenza il procedimento tecnico della pittrice che, una volta studiata un’invenzione, ne conservava il modello per poi riprodurlo fedelmente mediante lo stesso cartone o attraverso lucidi, forse più facili da trasportare, dati i molti traslochi e l’utilizzo delle medesime idee a distanza di anni. Che la riproduzione non avvenisse necessariamente ad opera della bottega, ma sovente della stessa Artemisia, è documentato ad esempio dal caso della monumentale Giuditta e l’ancella la cui l’editio priceps, conservata al museo di Detroit e concordemente datata al secondo soggiorno romano, venne replicata dalla pittrice per ben due volte, l’ultima delle quali, la versione del museo di Cannes, con tanto di firma (si veda in particolare F. Solinas, in Femmes fatales. Artemisia Gentileschi et Judith de Bétulies, catalogo della mostra (Cannes, Musée de la Castre, 2020; e ora P. Cavazzini in Artemisia Gentileschi. Héröine de l’Art, catalogo della mostra (Paris, Musée Jaquemart-André), a cura di P. Cavazzini, M.C. Terzaghi, Bruxelles 2025, pp. 184-185). Sicché possiamo ipotizzare che anche la tela in discussione nascesse dal pennello della pittrice, mentre la radiografia soggiacente la Maddalena, assente invece nella Cleopatra, sottoposta a indagini diagnostiche in quest’occasione, lascerebbe credere che la prima idea per la composizione fosse incentrata sul suicidio della regina, e soltanto in un secondo momento Artemisia realizzasse la bella santa pentita. Detto questo, resta da chiarire il momento in cui il dipinto poté essere eseguito dalla Gentileschi. Per prima cosa avverto che la ricerca negli inventari noti non consente alcuna identificazione della tela con opere perdute ascritte alla pittrice, che tornò più volte sul tema della regina d’Egitto suicida per scongiurare l’umiliazione della resa all’imperatore romano, rappresentandolo in momenti diversi della sua carriera, che corrispondono ad altrettante idee compositive, tanto che Mary Garrard (Garrard 1989, p. 252) enfatizza l’importanza del tema nell’opera della pittrice. La versione più antica ad oggi nota pare quella già in collezione Morandotti che ritrae Cleopatra distesa e reclinata sui cuscini con l’aspide attorcigliato al polso, secondo un modello aulico che la apparenta inequivocabilmente all’Arianna addormentata dei Musei Vaticani. Cleopatra distesa morente nella sua alcova verrà nuovamente rappresentata dalla pittrice a Napoli, questa volta con l’aggiunta del dettaglio aneddotico dell’ancella che ne scopre il cadavere (Napoli, collezione privata, nota a partire da M. Gregori, in Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra, Napoli 1984, p. 306, cat. 2.115). Di tre quarti, completamente nuda mentre porta l’aspide al petto è la Cleopatra della versione Cavallini Sgarbi da collocare in ambito romano, anche se sussiste qualche dubbio sulla cronologia al primo o al secondo soggiorno capitolino. Infine, in versione più pacata e con l’aggiunta della natura morta da cui spunta l’aspide, sulla falsariga del racconto di Plutarco, essa compare a figura intera, con gli occhi volti al Cielo, più santa che femme fatale nella tela di proprietà della Galleria Sarti, databile alla fine degli anni Trenta del Seicento (per un consuntivo delle oscillazioni attributive tra Artemisia e Bartolomeo Cavarozzi, si veda si veda V. Stanziola, in Artemisia Gentileschi. Héröine de l’Art, catalogo della mostra (Paris, Musée Jaquemart-André), a cura di P. Cavazzini, M.C. Terzaghi, Bruxelles 2025, pp.180-181). Di tutt’altro tenore la composizione in esame evidenzia invece la pompa delle vesti della regina in una posa discinta ma pur sempre composta, più meditabonda e nostalgica che disperata. Ho già avuto modo di ricordare per la Maddalena Robilant + Voena i precedenti pittorici che sottendono il tono elegiaco della composizione, innanzitutto la Notte raffigurata da Guercino nel Casino Ludovisi che certamente Artemisia doveva conoscere per aver lavorato per i medesimi mecenati; la Malinconia di Domenico Fetti (su questo riferimento si sofferma anche Farina 2022) e soprattutto il rapporto con la Maddalena penitente di Nicolas Régnier in collezione privata, caratterizzata dal medesimo gesto di appoggiare la testa sul braccio. Con Régnier e Vouet mi pare che il dipinto condivida anche il gusto per le vesti seriche e rigonfie che ancora si ritrova nell’Annunciazione di Napoli, normalizzandosi a mano a mano che si avanza nella parabola partenopea di Artemisia. Tenendo conto che un parallelo va a mio avviso istituito anche con la bellissima tela del Metropolitan che raffigura Ester e Assuero, solitamente datata agli anni veneziani, soprattutto nel dettaglio del profilo di Assuero, molto vicino a quello di Cleopatra, il cerchio si stringe intorno agli ultimissimi anni del terzo decennio o principio del quarto decennio del Seicento, una datazione che si addice all’afflato quasi barocco della tela in esame.
Maria Cristina Terzaghi