Filippo Tarchiani
(Firenze, 1576 - 1645)
SAN GIOVANNI BATTISTA
olio su tela, cm 180x128,5
SAINT JOHN THE BAPTIST
oil on canvas, 180x128.5 cm
Il dipinto, in ottimo stato di conservazione e ancora inserito nella sua cornice originaria in legno intagliato e dorato, illustra, all’interno di un ameno paesaggio boschivo con un ponticello di legno sovrastante un torrente dalle acque chiare e gorgoglianti, la figura di un giovane di bell’aspetto e dal fisico perfetto, identificabile in base ai suoi attributi iconografici con san Giovanni Battista, Nunzio e Precursore di Cristo. Figura emblematica nel passaggio tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, il Battista è descritto nel quadro con alcuni dei suoi simboli agiografici più correnti, ovvero la rozza veste in pelle di capra o di cammello (che in questo caso ricorda più quella maculata di un ghepardo), l’agnello candido e, ancora, la croce di canna con un cartiglio parzialmente arrotolato sul quale compare la scritta ECCE AGNVS DEI. Accarezzato da una luce algida e radente proveniente da una fonte imprecisata alla sua sinistra, il santo appare immortalato, come in un’istantanea fotografica, nell’atto di meditare sul suo credo divino attraverso l’osservazione della croce, atteggiamento riflessivo ricco di profondi significati morali allusivi, in chiave escatologica, alla morte e alla resurrezione di Cristo, ovvero alla rinascita dei Giusti dopo il Giudizio Finale. L’alto magistero esecutivo appare evidente, oltre che per l’eccellente qualità pittorica, per il nitore e la bellezza descrittiva della figura e dei suoi elementi iconografici o ornamentali, tutti studiati con rigorosa attenzione dal vero.
In base alla lettura tipologica del personaggio, ai caratteri di stile e alla curatissima stesura pittorica è possibile assegnare l’opera, grazie ad accurati confronti con dipinti lessicalmente affini, al catalogo autografo di Filippo Tarchiani, uno dei massimi rappresentanti della pittura fiorentina del primo Seicento.
Nato nel borgo di Castello alla periferia del capoluogo toscano il 2 marzo 1576, Tarchiani, ancora bambino, entrò a “bottega” da Agostino Ciampelli, pittore dal quale apprese importanti nozioni utili per la sua futura professione artistica. Dopo alcuni anni trascorsi a Roma sotto la guida di Durante Alberti, Filippo, rientrato in patria, si immatricolò nel 1594 all’Accademia del Disegno e più o meno in questo stesso tempo ebbe modo di lavorare con Gregorio Pagani, maestro, tra i più innovativi in Toscana insieme al Cigoli, aperto alle novità della “maniera lombarda”. Dopo un nuovo soggiorno nell’Urbe nel quale rinforzò il suo legame con Ciampelli e dove strinse contatti con altri giovani pittori fiorentini operanti in loco come Andrea Commodi e Anastagio Fontebuoni, l’artista fece nuovamente ritorno nella Città del Giglio, dove nel 1609 eseguì, tramite Jacopo da Empoli, le sue prime pitture citate nei documenti oggi sopravvissute: gli affreschi nella cappella della villa di Luca degli Albizi a Pomino, presso Rufina, nella Valdisieve. Dopo queste prime opere di gusto ancora tardo-cinquecentesco deferenti soprattutto alle lezioni di Jacopo da Empoli e del Poccetti, Tarchiani si indirizzò, a partire dalla fine del secondo decennio del Seicento, verso i nuovi linguaggi pittorici toscani, di impronta dichiaratamente naturalistica, mutuati in prevalenza dagli esempi della scuola caravaggesca, molto in voga in quel tempo in Italia e oltralpe. Da questo momento in poi il Nostro dette il via a un’intensa attività, legata in gran parte all’esecuzione di pale d’altare sorrette da un’impeccabile supporto grafico, definite, come ricorda il biografo Filippo Baldinucci, con «ombre di termini molto spediti, et evidenti». I forti contrasti di chiaroscuro che caratterizzano le opere di quel periodo, si addolcirono dagli anni trenta, tempo nel quale Tarchiani mostrò, seppur in modo non smaccato, interessi verso gli effetti pittorici più morbidi e sfumati derivati dalla conoscenza delle opere di Francesco Furini e una matericità pittorica più densa e pastosa. Attivo fino in tarda età, l’artista morì a Firenze il 21 settembre 1645 e il suo corpo fu inumato nella chiesa di Santa Maria del Carmine (per la biografia e l’elenco delle opere dell’artista si veda S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini del ‘600 e ‘700. Biografie e opere, 3 voll., Firenze, 2009, I, pp. 223-225 e III, figg. 1231-1246; si veda ancora N. Barbolani, Tarchiani, Filippo in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, 2019; con bibliografia precedente).
La cura riservata alla descrizione dei tratti del volto della figura presente nel quadro, sicuramente mutuati dallo studio di un modello vivente, induce a ipotizzare che sotto le sembianze di questa si celi, come possiamo dedurre dall’esame di altri dipinti fiorentini del Seicento, il ritratto di un membro della famiglia committente, probabilmente un personaggio di nome Giovanni o Giovan Battista, nome del resto molto comune nel capoluogo toscano in quanto omaggiante il suo santo protettore.
Collocabile in uno dei momenti aurei dell’attività di Tarchiani, l’opera, non citata nelle fonti documentarie oggi note e di ubicazione originaria sconosciuta, si pone, per dati lessicali e stilistici, in una fase cruciale di passaggio del percorso professionale dell’artista, cioè tra il periodo ancora legato fortemente al naturalismo fiorentino primo-seicentesco di Jacopo da Empoli e quello votato alla ricerca di effetti luministici più intensi e contrastati in perfetta sintonia con le tendenze della pittura caravaggesca.
La forte dipendenza dalla lezione empolesca si rileva in effetti nella stesura compatta delle pennellate sul corpo della figura dalla carnagione chiara sulla quale si riflette un biancore alabastrino evidente soprattutto sulle braccia e sulla gamba e il fianco destro. Affinità con le correnti caravaggesche si riscontrano altresì nei marcati contrasti di luce e ombre che modellano alla perfezione la nudità della figura, conferendo a questa palpiti vitali, e sul verismo descrittivo rilevabile essenzialmente nella cura riservata alle unghie del santo dipinte con indubbia acribia, al vello dell’agnello definito con varie sfumature graduate tra il bianco e l’avana e, ancora, sulla pelliccia maculata che, con studiata nonchalance, copre con garbo la nudità del personaggio.
Omaggi alla tradizione fiorentina del primo Seicento si riscontano, oltre che per citati legami con la lezione empolesca, nella descrizione riservata al paesaggio dipinto nello sfondo della tela, frutto dello studio e della conoscenza della pittura paesistica fiamminga introdotta in Toscana sul volgere del Cinquecento, oggetto di studio e di interesse di molti fiorentini, in particolare Alessandro Allori e il figlio di questi, Cristofano.
Le affinità più o meno stringenti con opere di Tarchiani come la raffinatissima Pietà nel Museo Capitolare di Pistoia del 1618, il Martirio di santo Stefano a Capraia del 1621, il Battesimo di Cristo già in Santa Maria de’ Ricci a Firenze del 1627 e il pressoché coevo Martirio di san Bartolomeo a Padule a Sesto Fiorentino (per questi dipinti si veda C. Pizzorusso in Il Seicento Fiorentino. Pittura, catalogo della mostra, Firenze, 1986, pp. 158 n. 1.50 e 161 n. 1.52; S. Bellesi, Catalogo, cit., pp. 328 figg. 1565 e 1568) consentono di collocare convincentemente l’esecuzione della tela, catalogabile tra i massimi raggiungimenti della produzione dell’artista, in un periodo contenibile tra la fine del secondo e gli inizi del terzo decennio del Seicento.
Tipologie maschili molto simili a quelle presenti nell’opera qui esaminata dovettero ricorrere con una certa frequenza nei dipinti di Tarchiani, come dimostrano paradigmaticamente alcuni personaggi presenti oltre che nelle citate tele di Pistoia e Capraia nella pala con l’Immacolata Concezione con i Progenitori nella Cattedrale di Colle Val d’Elsa, opera eseguita poco prima del 1642 (per un’illustrazione di questa si veda S. Bellesi, Catalogo, cit., p. 331 fig. 1572).
Sandro Bellesi