Alberto Burri
(Città di Castello 1915 - Nizza 1995)
BIANCO NERO
olio, acrilico e vinavil su tela, cm 50x80
eseguito nel 1952
L’ opera è accompagnata da attestato di libera circolazione
BIANCO NERO
oil, acrilyc, vinavil on canvas, 50x80 cm
executed in 1952
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Provenienza:
Collezione Riccardo e Magda Jucker, Milano
Galleria Blu, Milano
Collezione Luisella d’Alessandro, Torino
Collezione privata, Arezzo
Esposizioni:
a cura di Marco Vallora, I neri di Burri, Acqui Terme, Palazzo Liceo Saracco, 20 luglio – 14 settembre 2003; ivi ripr. p. 69
Bibliografia:
a cura della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Burri. Contributi al catalogo sistematico, Città di Castello, 1990, p. 34, n. 107 (illustrato a p. 35)
L’étude du beau est un duel où l’artiste crie de frayeur avant d’être vaincu.
Protagonista indiscusso dell’arte contemporanea internazionale, Alberto Burri ha saputo coniugare le istanze recepite durante la duplice ambivalente esperienza negli Stati Uniti, dal campo di prigionia texano al Guggenheim di New York, con la millenaria tradizione artistica italiana, senza con ciò ridursi ad adepto delle prime, o costringersi a rinnegare quest’ultima. Sotto questo profilo il percorso artistico di Burri è una delle più efficaci esemplificazioni di quel prezioso processo di secolarizzazione dell’arte contemporanea italiana e di emancipazione dalle sterili contrapposizioni scolastiche in cui si erano spesso dissolte, complice l’egemonia del dualismo ideologico, le pur fertili avanguardie artistiche del primo Novecento.
Nella poetica di Burri, le componenti autobiografiche e intimistiche, o perfino solipsistiche, come quelle socio-antropologiche, descrittive o rappresentative non si configurano come categorie contrapponibili, potendo quindi confluire e coesistere, senza confliggere, in buona parte delle sue opere, tanto da rendere accettabile l’affermazione che il suo ultimo dipinto fosse identico al primo. Questo apparente paradosso si risolve nel momento stesso in cui ci si rende conto che per Burri l’opera è parte integrante e non separabile di quella complessa, a tratti anche dolorosa, trama che è il suo stesso vissuto. In questo senso, le parole di Freud quando scrive che “La natura benigna ha concesso all’artista di esprimere i moti più segreti del suo animo, a lui stesso celati, attraverso creazioni che scuotono potentemente gli altri, gli estranei all’artista, senza che quest’ultimi sappiano indicare donde provenga la loro commozione.” , ben si attagliano all’esperienza artistica di Burri.
L’impellente necessità di ricercare nuovi equilibri estetici nella definizione del rapporto tra l’essere, la materia e la realtà, non assumono in Burri il ruolo di principi fondanti di una nuova corrente artistica o di una liturgica weltanschauung, perciò non necessitano di essere enunciati e verbalizzati, piuttosto divengono la prova evidente dell’indissolubile nesso d’identità che sussiste tra l’artista e la sua opera, quest’ultima intesa come esclusivo e non declinabile strumento di comunicazione. È lo stesso Burri che, in una delle sue, rare, esternazioni pubbliche, ci fornisce una chiara ed esaustiva indicazione del modo più proficuo di approcciarsi alla sua opera: “Le parole non mi sono d’aiuto quando provo a parlare della mia pittura. Questa è un’irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione. È una presenza nello stesso tempo imminente e attiva. Questa è quanto essa significa: esistere così come dipingere. La mia pittura è una realtà che è parte di me stesso, una realtà che non posso rilevare con parole”
Burri corre facilmente in testa: i quadri della sua pittura sono da considerare già come paradigmi maturi.
L’importante opera che qui viene proposta, Bianco Nero del 1952, fa parte di una serie di lavori in cui risultano già formalizzati e pienamente acquisiti tutti gli assunti di quella sintassi pittorica che denoterà l’intera produzione artistica di Burri. È proprio in queste opere che scompaiono definitivamente le dimensioni sperimentale, programmatica ed enunciativa affidate ai materiali grezzi e ben rappresentate dal ruolo cromatico attribuito al sacco, di cui lavori come SZ 1 del 1949, sono una chiara ed anticipatoria esemplificazione.
A partire dal 1950 la ricerca di una traduzione pittorica nell’utilizzo dei materiali si fa sempre più approfondita e sistematica e si concretizza nella realizzazione delle Muffe e dei primi Gobbi. Il percorso sperimentale intrapreso raggiunge il suo culmine proprio nel 1952, anno che, per molteplici ragioni, si configura come cruciale nella sua carriera ed al contempo corrisponde alla definitiva consacrazione artistica di Burri. Il 1952 si apre infatti con la personale Neri e Muffe alla galleria dell’Obelisco di Roma e con la partecipazione alla mostra Arte astratta e concreta in Italia presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna sempre a Roma. Non meno significativa è le partecipazioni alla mostra Omaggio a Leonardo, organizzata alla Fondazione Origine in cui tra le opere presentate figura anche Lo strappo, opera che di li a pochi mesi venne scartata dalla giuria della Biennale di Venezia, per essere sostituita proprio con lo Studio per lo strappo che fu inserito nella sessione Bianco e nero di quella stessa Biennale ed acquistato da Lucio Fontana. All’apprezzamento manifestato da quest'ultimo con l'acquisto dell’opera, corrispondeva la precedente sottoscrizione da parte di Burri del Manifesto del movimento spaziale per la televisione nel maggio di quello stesso anno. Ma il 1952 è anche l’anno del primo incontro con Robert Rauschenberg, che così lo ricorda: “Andai nello studio di Burri in via Margutta. Lui fu cordiale e ospitale. Poche settimane dopo venni a sapere che era malato. Io, in quel momento, facevo i Feticci personali e mi ero convinto che avessero poteri magici. Così tornai allo studio e ne feci uno per Burri, con lo scopo di farlo guarire. Due settimane dopo egli venne a casa mia con il più piccolo dipinto che avesse mai fatto, in cambio dell’opera che gli avevo donato. Questo quadro rimane uno dei miei beni più preziosi.”
Questa positiva ed intensa serie di esperienze artistiche, espositive ed umane sanciranno il prolifico ed autentico sodalizio poetico con Emilio Villa, che presenterà la celebre personale dell’aprile 1953 alla Fondazione Origine; ma saranno anche l’occasione per un altro incontro determinante nella carriera di Burri, quello con l’allora direttore del Solomon R. Guggenheim di New York, James Johnson Sweeney. Questi, profondamente colpito dalle opere di Burri viste durante il soggiorno romano, diverrà il suo referente critico assumendo il ruolo di vero e proprio anfitrione statunitense. Dal 1953, con le mostre alla Allan Frumkin Gallery di Chicago e alla Stable Gallery di New York, gli Stati Uniti divengono una seconda patria per Burri. Qui inizia il suo successo artistico che, attraverso una serrata attività espositiva in tutto il paese, lo introdurrà nelle principali collezioni e musei americani; qui sarà pubblicata nel 1955 la prima monografia dedicata alla sua opera, curata da Sweeney; qui, inoltre, il 15 maggio 1955, sposerà la coreografa americana Minsa Craig. Ma il successo americano segnerà anche la fortuna commerciale di Burri rendendo le opere degli anni Cinquanta spesso economicamente inaccessibili, come ricorda il collezionista Giuseppe Panza che, dopo aver venduto una combustione per acquistare un dipinto di Rothko, rimpiange di non avere un’opera di Burri nella sua collezione: “Ho una grande stima per questo artista, per i sacchi creati negli anni ’50, arte di grande qualità, dei veri capolavori. Volevo comperarne uno, ma costavano molto, al di sopra delle mie possibilità. Aveva avuto successo in America; ricordo che costavano 5 milioni di lire, nulla in confronto al miliardo che valgono oggi. La cifra massima che avevo pagato erano le 500.000 lire per i Vedova, 10 volte meno.”
Ma da una ferita è scaturita la bellezza.
Le esperienze polimateriche – identificate poi comunemente come “informale” – che si stanno delineando in tutta Europa in quell’arco temporale affondano le loro radici nel particolare contesto storico e sociale dell’immediato dopoguerra e la stessa esperienza biografica di Burri ne è permeata. Le sue vicende personali e il clima politico italiano dell’immediato dopoguerra danno alla sua opera il connotato di una vivida risposta al drammatico conflitto mondiale, dal momento che Burri stesso era stato prigioniero di guerra nel campo di Hereford in Texas dal 1944 al 1945: arruolato come medico, è solo durante la prigionia che decide di dedicarsi esclusivamente all’arte. Questo pur significativa coincidenza di episodi, ha fatto sì che molta critica abbia letto ed esteso il significato metaforico delle lacerazioni, delle cuciture e delle stesse combustioni sino ad attribuirgli il valore simbolico di un corpo ferito: la piaga ancora aperta di una coscienza europea consapevole della gravità dei propri errori e sinceramente protesa a porvi un rimedio, ma al contempo volutamente attonita e sconvolta. Lo stesso Sweeney scrive: “[...] Burri muta gli stracci in una metafora di carne umana, sanguinante, rianima i materiali morti con i quali lavora. Li fa vivere e sanguinare: e poi cuce le ferite con un senso di evocazione e con la stessa sensibilità con cui le ha fatte”.
Anche sotto questo profilo, Bianco Nero è un’opera che esprime chiaramente quanto queste istanze fossero immanenti in Burri al di là della prospettiva ermeneutica, positiva o negativa, da cui la si osserva. La tragicità dell’evento che qui viene narrato trova la sua catarsi in un precario e discontinuo equilibrio che tuttavia risulta addirittura gradevole e rassicurante: all’incombenza dei neri che sovrastano la scena, si contrappone la solida levità dei bianchi, la cui sola possibilità di resistenza appare garantita proprio da quei residui richiami, da quelle flebili tracce dell’umana presenza indistintamente rappresentate dagli arabeschi delle colature, non meno che dall’evanescente juta, dalla carta o dal ferro che come una vena pulsante o un nervo teso corre sotto la pittura. In Bianco nero è chiaramente leggibile, in modo quasi didascalico, l’opportunità di sottrarsi allo spettro dell’entropia attraverso l’umana facoltà di creare armonia dalla dissonanze: come scrive Sweeney, “Burri mette insieme lo spaccato di un mondo caotico, il fermo immagine del confuso universo che lo circonda e lo fa con sapiente maestria, gioca con i materiali che usa, lascia che questi a loro volta giochino tra loro, lascia che essi giochino con lui, che collaborino al risultato finale, persino dettandogli alcune delle sue forme più tipiche”.