MASTERPIECES FROM ITALIAN COLLECTIONS

thu 1 October 2015
Live auction 45
21

Giovanni del Biondo

€ 270.000 / 320.000
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Giovanni del Biondo

(Firenze, documentato dal 1356 al 1399)

 

MADONNA DELL’UMILTA’, 1375/1380

 

tempera su tavola fondo oro centinata, cm 147,3x87

 

MADONNA DELL’UMILTA’, 1375/1380

 

tempera and gold leaf on arched wood panel, 147.3 x 87 cm

Provenienza

collezione M.V. Emetaz, Stati Uniti; The Montclair Art Museum, Montclair (New Jersey), inv. 59. 42;

collezione Gianfranco Luzzetti, Firenze; collezione privata, Modena

 

Esposizioni

Montclair Art Museum, 14-28 gennaio, 1962; Montclair Art Museum, The Arts of Europe,23 dicembre 1962 – 13 gennaio 1963; Firenze, Collezione Gianfranco Luzzetti, 18 settembre – 6 ottobre 1991

Referenze fotografiche

Fototeca Zeri, Bologna, inv. 16279, busta 0052, fasc. 1, scheda 2110, come Giovanni del Biondo (sul verso della foto nota autografa di Zeri a matita “Jacopo di Cione”) (Fig. 4)

 

Il prezioso fondo oro qui presentato, proveniente da una collezione privata modenese, faceva parte presumibilmente fin verso gli anni Ottanta delle collezioni del Montclair Art Museum di Montclair nel New Jersey (inv. 59.42), come si può dedurre dalla pubblicazione dell’opera nel 1991 a cura di Angelo Tartuferi nella quale lo studioso faceva cenno alla presenza “fino ad epoca assai recente al Montclair Art Museum”.

Già nella raccolta statunitense M. V. Emetaz, la grande tavola entrò nelle collezioni museali nel 1959 con un riferimento iniziale a Jacopo di Cione, attribuzione mantenuta nel Census of prenineteenth- century Italian paintings in North American public collections del 1972 cura di Federico Zeri e Burton B. Fredericksen. Grazie a una comunicazione orale di Everett Fahy (cfr. A. Tartuferi 1991), l’opera venne in seguito correttamente ascritta a Giovanni del Biondo, e come tale fu esposta per la prima volta nella mostra tenutasi dal 14 al 28 gennaio 1962 nello stesso museo (vedi “Gazette des beaux-arts, v. 59, 1962, p. 15).

L’iconografia della Madonna dell’Umiltà, che caratterizza il nostro dipinto, fu elaborata da Simone Martini durante la sua attività per la corte papale ad Avignone. Da qui ebbe una rapida diffusione in Italia, favorita dalla spiritualità degli Ordini mendicanti che, nella Vergine seduta a terra humiliter, vedevano un’immagine efficace per incoraggiare una svolta pauperistica della Chiesa. Nel nostro fondo oro la Vergine, adagiata su di un cuscino e un prezioso broccato, indica il

Bambino, teneramente seduto sulle sue ginocchia, cinto ai fianchi da un panno regale di colore rosso, nell’atto di benedire con la mano destra, mentre con la sinistra sostiene un melograno, i cui grani rossi, simili a goccioline di sangue, prefigurano il sacrificio di Cristo. L’iconografia della Vergine “de humilitate” nella nostra opera si sovrappone a quella della Donna dell’Apocalisse, descritta nel testo giovanneo come: una donna vestita di sole, con la luna sotto

i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (Apocalisse 12, 1-2). La Vergine, infatti, è raffigurata come una regina, ammantata nell’ampio manto azzurro che lascia intravedere la fodera di colore rosso aranciato e la preziosa veste dorata, arricchita da rabeschi e racemi in cui si distinguono due mezzelune. I lunghi capelli biondi sono ornati da un diadema dorato, mentre l’aureola, riccamente punzonata, è coronata da dodici stelle, simbolo delle dodici tribù di Israele

(Genesi 37, 9-10), in basso a destra si staglia la mezza luna realizzata in lamina d’argento. Una simile contaminazione tra l’iconografia della Madonna dell’Umiltà e la Donna dell’Apocalisse, ancorché rara, ritorna in altre opere realizzate in Italia durante l’ottavo decennio del Trecento, per cui si possono ricordare i casi marchigiani di Andrea de’ Bruni nella Pinacoteca parrocchiale di Corridonia (fig. 1), datata 1372, in cui la Vergine, nell’atto di allattare il Bambino, è assisa a

terra su un basamento di marmo rosa che riporta il passo in latino dell’Apocalisse: “Mulier amicta sole et luna sub pedibus eius corona stellarum duodecim”, e, ancora nelle Marche, la tavola in Sant’Andrea di Montegiorgio dipinta nel 1374 dal fabrianese Francescuccio Ghissi (fig. 2).

Giovanni del Biondo affrontò in altre occasioni il tema apocalittico della Regina Coeli, come nel pannello centrale del polittico Rinuccini in Santa Croce raffigurante la Madonna con Bambino (fig. 3), licenziato nel 1379, in un periodo prossimo all’esecuzione della nostra opera. Anche in questo dipinto, infatti, la Vergine è effigiata col diadema regale e con le dodici stelle dell’Apocalisse poste sulla parte superiore del capo in due semicerchi concentrici, messe in risalto dal fondo blu su cui si stagliano. La rappresentazione della Madonna come “Regina Coeli” non è collegata in questo caso alla rappresentazione della “Nostra domina de humilitate”, pertanto la Vergine assume un carattere ancora più regale grazie ai dettagli come la veste foderata d’ermellino e l’uso del prezioso drappo d’onore che ricade dal trono su cui si staglia la mezzaluna. Altra opera di Giovanni del Biondo raffigurante la Madonna dell’Apocalisse è la tavola della Pinacoteca Vaticana eseguita attorno al 1391, in cui la Vergine è raffigurata in piedi su di una sorta di piattaforma, circondata da santi.

Formatosi nella bottega degli Orcagna, Giovanni del Biondo fu particolarmente sensibile all’influenza di Jacopo di Cione, elaborando fin dagli anni Sessanta del Trecento un suo codice stilistico personale contraddistinto da un’accentuata ricercatezza formale, da una gamma cromatica smagliante, arricchita da cangiantismi e dalla pungente connotazione espressiva dei personaggi. A partire dal 1375 iniziò un processo di graduale cambiamento stilistico caratterizzato  all’adesione ad una maniera più plastica e spaziale. Questa evoluzione potrebbe essere la conseguenza del notevole successo acquisito tra i committenti, confermato dalla sopravvivenza di un numero cospicuo di dipinti, che poté consentirgli una maggiore autonomia e indipendenza rispetto al canone orcagnesco. Sembrano dimostrarlo le opere eseguite nei primi anni settanta del Trecento, come il polittico della Cappella Tosinghi Spinelli in Santa Croce, datato

1372, e l’Incoronazione della Vergine di Fiesole, Museo Bandini, dell’anno successivo. Quest’ultima opera, come indicato da Tartuferi, presenta una decorazione molto simile a quella impiegata da Giovanni il Biondo nel nostro fondo oro, riproposta anche nell’Incoronazione della Vergine e santi già nella collezione Cook a Richmond (Surrey) del 1372, nella tavola con Cristo e la Vergine in trono della Yale University Art Gallery di New Haven e nelle Incoronazioni della chiesa di San Lorenzo a San Giovanni Valdarno e della Walker Art Gallery di Liverpool.

Come precisato da Angelo Tartuferi, “nella figura del Bambino, un solenne e atemporale idolo di porcellana avvolto in bellissimi panneggi, il pittore raggiunge sotto il profilo plastico uno dei vertici della sua attività”. La nostra opera, di ineguagliato livello qualitativo all’interno della folta produzione di Giovanni del Biondo, emerge nel corpus del maestro per la particolare ricchezza e finezza esecutiva, informandosi a un gusto che sembra introdurre il clima gotico-internazionale:

“l’atmosfera di fastosità regale e sfavillante che traspare dall’opera è sottolineata anche dalla ricca decorazione punzonata che corre lungo il margine del fondo d’oro e sui nimbi delle figure, nonché dal broccato sul quale è seduta la Madonna”. (A. Tartuferi 1991 p. 44). L’iniziale riferimento di attribuzione della tavola a Jacopo di Cione troverebbe una logica spiegazione nei rapporti sempre più serrati tra i due artisti, infatti attorno al nono decennio del secolo Giovanni del Biondo avviò una stretta collaborazione con Jacopo di Cione, fratello di Andrea e Nardo, ormai scomparsi, coi quali Giovanni era stato in stretto contatto partecipando alla decorazione della Cappella Strozzi nella chiesa domenicana di Santa Maria Novella. Dopo una maggiore libertà espressiva caratteristica della produzione tra gli anni sessanta e settanta del secolo, Giovanni, sotto l’influsso di Jacopo di Cione, sembra avviare un recupero di schemi

iconografici arcaizzanti. A testimonianza della stretta condivisione della grammatica fredda e lucente di Jacopo di Cione il confronto più interessante per la nostra opera può essere istituito con la Madonna dell’Umiltà della Galleria dell’Accademia di Firenze (fig. 5). Proveniente dalla chiesa dei Santi Ilario ed Ellero di Colognole (Pontassieve), la tavola

dell’Accademia, databile negli anni ottanta del Trecento, costituisce uno dei dipinti più alti e di più raffinato effetto iconico di Jacopo di Cione, in cui “tutto il dipinto appare un ricamo di oro e di colori delicati, sui quali acquistano un particolare risalto figurativo il lapislazzulo del manto della Vergine e l’arancio del coprifasce del bambino, squillanti come in una miniatura” (L. Marcucci, Gallerie Nazionali di Firenze. I dipinti toscani del secolo XIV, Roma 1965, p. 101, n. 59). “Gli accenti comuni ai due dipinti sono piuttosto evidenti e consistono soprattutto nella forte concentrazione iconica e nella prevalenza accordata all’elemento decorativo, che conferisce alla tavola l’aspetto di un oggetto prezioso e raffinato, risplendente per l’oro e i colori squillanti”. (A. Tartuferi 1991, p. 44). Sulla base pertanto di simili tangenze stilistiche è stata proposta da Tartuferi una datazione dell’opera tra il 1375 e il 1380 e sembra pertanto interessante il confronto con talune opere dell’artista eseguite nella seconda metà degli anni settanta come la Madonna con Bambino di collezione privata milanese (già Galleria Baroni, Firenze) (fig. 6), la Madonna dell’Umiltà, 1375 ca., Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte, Firenze (già chiesa di S. Pietro a Sollicciano) (fig. 7) e con la Madonna dell’Umiltà di collezione privata, Imperia (già collezione G. Riva, Milano) (fig. 8). In quest’ultima opera si colgono affinità nella fisionomia e nella postura del Bambino con quello raffigurato nel nostro fondo oro.

 

Note biografiche

Giovanni del Biondo, pittore documentato a Firenze dal 1356 sino alla sua morte avvenuta nel 1398, si formò intorno alla metà del Trecento nell’orbita della cultura orcagnesca, accogliendo vari elementi del repertorio di Nardo di Cione con cui collaborò verso il 1357 nella Cappella Strozzi di Santa Maria Novella. Nel corso del settimo decennio del secolo il pittore mostra la volontà di superare la severità espressiva e il rigore formale orcagnesco con un linguaggio narrativo limpido che sovente si sofferma con straordinaria freschezza sul dettaglio naturalistico, caratterizzato inoltre da una materia pittorica lucente ed ineccepibile. Lo stile del pittore, già fortemente individuale, si rileva nei Tre Santi eseguiti nel 1360 per la chiesa di San Francesco a Castelfiorentino (ora nel Musée d’Histoire di Lussemburgo) e in un ciclo di affreschi conservati ancora nella stessa chiesa. Nel 1364 data il trittico dell’Accademia di Firenze, al quale seguì un altro, la cui parte centrale è conservata a New Haven ed i laterali alla Pinacoteca Vaticana. Al ricco corpus pittorico di Giovanni del Biondo appartengono molte opere datate, fra le quali il polittico della Cappella Tosinghi in Santa Croce (1372) e l’altra nella Cattedrale di Fiesole (1373); parti di un trittico conservate nella chiesa parrocchiale di San Donato in Poggio (1375); la predella del polittico della Cappella Rinuccini in Santa Croce (1379) e la Madonna col Bambino di San Felice a Ema (1387).