Scultore senese, primo/secondo decennio del XIV secolo ca.
MADONNA COL BAMBINO
legno policromato, argentatura a mecca e dorature, cm 90 × 38 × 24
Bibliografia
L. Mor, in Antiqua res. Secoli XIII-XVI, a cura di F. Gualandi, con contributi di G. Gentilini e L. Mor, Bologna 2011, pp. 8-15, n. 3 (con bibliografia di riferimento e immagini di confronto)
Questa Madonna col Bambino in legno si aggiunge al corpus superstite della scultura gotica senese. Il nobile portamento frontale della Vergine lascia ipotizzare che in origine l’opera fosse stata concepita a figura intera: ciò sarebbe avvalorato sia dalla accentuata sporgenza del capo, destinata a compensare una visione prospettica dal basso, sia dal lieve incedere della gamba destra e dall’assenza di tracce che presuppongano l’antica presenza di un basamento. In ambito senese sono del resto più di qualcuna le statue lignee trecentesche conformate in modo simile durante epoche successive, verosimilmente per rispondere a nuove esigenze funzionali o liturgiche. In proposito citiamo il noto busto di San Cerbone (secondo decennio ca.) già nell’omonima cattedrale di Massa Marittima (ora al Museo d’Arte Sacra), nel quale ritorna anche l’analogo aggetto della testa, e quello della Madonna col Bambino (terzo decennio ca.) già nella collezione von Hirsch a Basilea. Nella nostra Madonna il compatto altorilievo del torso è scavato sul retro fino alle spalle e sigillato con due pannelli accostati. Ulteriori assemblaggi riguardano l’avambraccio destro, la cui mano trattiene un piccolo fuso o stelo (forse per un disperso Giglio a innesto), nonché l’avambraccio benedicente del Fanciullo e le falde del manto con ampi risvolti dipinti. Tale decorazione consiste in un vaio stilizzato a bande regolari che ricorda quella dell’imponente San Cristoforo in legno (ultimo quarto ca. del XIII secolo) nell’omonima chiesa di Barga, mentre sulla veste materna persiste un’argentatura a mecca, ornata con una teoria dipinta di pietre sulla bocchetta della scollatura. Il Figlioletto sorretto sulla sinistra indossa invece una tunica di pigmento rosso impreziosita da corolle vegetali dorate. L’opera, del resto, si caratterizza per l’attenzione sensibile al dato naturale - anche nella posa disinvolta delle mani e nei sinuosi capelli dorati - fino ad addolcire quasi pittoricamente la saldezza costruttiva dei volumi di eco ancora arnolfiana. La suggestione formale è però eterogenea e declina soluzioni della pittura senese, se non altro per l’elegante compostezza e il ritmo lineare del panneggio che, per esempio, ritroviamo nella Madonna della Misericordia (1305-1310 ca.) della chiesa di San Bartolomeo a Vertine (ora Siena, Pinacoteca Nazionale), attribuita a Memmo di Filippuccio con la collaborazione del giovane Simone Martini. Non sorprendono pertanto talune affinità con la semplificazione plastica di Tino di Camaino, soprattutto con quella della Madonna col Bambino della Tomba-altare di San Ranieri (ante 1306) presso il Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, dove l’azione introspettiva appresa solo pochi anni prima durante l’alunnato senese sotto Giovanni Pisano è filtrata da un temperamento più pacato, aggiornato alla rinnovata armonia della pittura di Simone. D’altro canto, tra lo scorcio del XIII secolo e gli inizi del secolo seguente gli scultori che si sostituirono alla taglia di Giovanni nella fabbrica del duomo si distinsero per uno stile quasi sordo all’inquietudine espressiva della lezione giovannea, appellandosi piuttosto alla gravitas peculiare di Nicola Pisano e Arnolfo di Cambio. In tal senso Camaino di Crescentino, padre di Tino e documentato nel cantiere senese dal 1299 al 1335 tra i maestri con salario più alto, ebbe sicuramente un ruolo rilevante, così come si deduce dalla massività di una scultura della sua cerchia quale la Maestà (ante 1317) nel Museo dell’Opera del Duomo, un tempo facente parte del gruppo di statue che contornavano il rosone. La Madonna in esame si pone dunque appieno nel solco della fronda “antigiovannea”, specialmente se si prende in considerazione la rispondenza compositiva con la Madonna col Bambino in pietra già nella lunetta della chiesa di San Michele a Volterra (oggi nel Museo d’Arte Sacra), esito di un maestro senese tra il primo e secondo decennio del XIV secolo. Ancora più emblematico il confronto con quello che può essere ritenuto il maggiore interprete di questo filone: ci si riferisce alla prima maniera di Gano di Fazio da Siena (doc. dal 1302 e morto tra il 1316 e 1317), coinvolto innanzitutto nella produzione sepolcrale e la cui unica impresa che ne riporta il nome è la Tomba di Tommaso d’Andrea (1303-1305 ca.) nella collegiata di Casole d’Elsa. Qui l’essenzialità geometrica di radice arnolfiana è riletta con una resa formale che esalta la linea e l’armonia della sua azione dinamica, evidenziando in particolare il debito verso l’impulso naturalistico della pittura coeva. Se il Sepolcro di Gregorio X (1303-1304) nel Duomo di Arezzo va ricondotto a una maestranza senese a lui molto vicina, tra le opere che sono attribuite credibilmente al catalogo di Gano vale la pena ricordare in San Domenico ad Arezzo il Monumento funebre di Ranieri degli Ubertini (morto tra il 1297 e 1300) e le Storie del beato Gioacchino “Piccolomini” del 1310-1312 circa (Siena, Pinacoteca Nazionale; già in Santa Maria dei Servi). La Tomba-altare di Santa Margherita da Cortona nell’omonimo santuario cortonese e la Madonna col Bambino nel locale Museo Diocesano rientrano invece nell’ultimo periodo del maestro, ormai intento a perfezionare la propria parabola narrativa aprendosi cautamente alla tensione gotica di Giovanni Pisano. Infatti, a differenza della Madonna annunciata (1310 ca.) del monastero delle Clarisse Cappuccine di Colle Val d’Elsa, scolpita in legno da un senese prossimo allo stesso Gano, in cui altrettanto esplicito è l’ascendente della celebre Maestà dipinta da Duccio (1308-1311) per il duomo di Siena, la scultura in oggetto risulta immune da tale orientamento. Anzi, si osserva ancora una propensione sia per lo stile genuino dell’arca di Tommaso d’Andrea, sia per la sintesi plastica che distingue un raggruppamento di statue attribuito al cosiddetto Maestro del Sepolcro Malavolti (attivo tra la fine del Duecento e gli inizi del XIV secolo), già riconosciuto come Camaino di Crescentino. In particolare, la convergenza con gli Angeli reggicortina del monumento casolese di Gano non può essere limitata a un generico apporto formale, soprattutto nell’impostazione vigorosa dei corpi, nello schematismo dei corrugamenti e nel turgore dei volti, la morfologia dei quali appare quasi sovrapponibile. Per contro nel nostro manufatto si riconosce un valore esecutivo più misurato, in parte condizionato dal differente effetto del legno policromato rispetto al nitore del marmo, tuttavia, è ammissibile che si sia dinnanzi a una derivazione coerente, se non diretta, dell’iniziale lessico di Gano. Se si tiene pure presente quello che sarebbe potuto essere l’originario slancio verticale della Vergine, l’affinità tipologica col vaio del San Cristoforo di Barga e l’adesione alla cultura figurativa degli scultori che animarono il cantiere del duomo senese agli inizi del Trecento, è plausibile che l’intaglio appena descritto risalga tra il primo e secondo decennio dello stesso secolo.
Abstract tratto da Luca Mor (2011)