A CHARGER, DERUTA, GIACOMO MANCINI CALLED “IL FRATE”, CIRCA 1560
PIATTO DA PARATA, DERUTA, GIACOMO MANCINI DETTO “IL FRATE”, 1560 CIRCA
in maiolica dipinta in policromia in verde rame, rosso ferro, giallo arancio, bruno blu di manganese; diam. cm 42,4, alt. cm 5
Bibliografia
C. Fiocco, G. Gherardi, Aspetti dell'istoriato derutese: l'opera tarda di Giacomo Mancini detto "Il Frate" e della sua bottega, in "Faenza", LXXXI, 1995, 1-2, pp. 5-9 tav. I;
C. Leprince, J. Raccanello (a cura di), Back to Deruta. Sacre and Profane Beauty, Parigi 2018, pp. 98-105 n. 14
Il grande piatto da parata con cavetto largo e piano, balza breve che si apre in una tesa poco profonda e dall’andamento orizzontale, si presta a ospitare la complessa rappresentazione dell’episodio storico di Muzio Scevola. Il piatto al verso è acromo e mostra uno smalto bianco, spesso e di buona qualità con qualche bollitura.
La scena, probabilmente tratta da una versione illustrata delle storie di Tito Livio (Ab Urbe Condita, II, 12), è qui raffigurata nello stile vario e riconoscibile della produzione matura di Giacomo Mancini detto “il Frate”. È raffigurato un accampamento militare, che spicca in un paesaggio di sfondo, dove davanti a una ricca tenda Muzio Scevola compie il sacrificio di fronte al re Porsenna, raffigurato seduto e con un atteggiamento di stupore. In alto spicca contro il cielo lo stemma della famiglia Baglioni (d'azzurro alla fascia d'oro) sormontato da un elmo piumato. Proprio ai Baglioni, il cui stemma spesso compare sulle maioliche coeve, doveva essere dedicato il piatto: i potenti signori di Perugia, che persero potere solo dopo aver attraversato un periodo di difficoltà quando furono osteggiati dal papa Paolo III dopo la "guerra del sale" del 1540, si estinsero solo nel 1648 con la morte di Malatesta, vescovo di Pesaro e poi di Assisi.
Per l’analisi storico artistica di questo piatto si fa riferimento all’ampio e dettagliato studio di Carola Fiocco e Gabriella Gherardi, che nelle pagine della rivista Faenza hanno pubblicato il piatto in riferimento alla fase più tarda dell’opera di Giacomo Mancini, che sappiano finire con la sua morte nel 1581. Con Giacomo si introduce una vena narrativa che denota il contatto con i decoratori della grande tradizione urbinate, con opere per le quali si attinge all'immenso repertorio di stampe “che accompagna e fa seguito all'opera dei grandi del Rinascimento”. Premesso che la distinzione tra la mano del maestro e i pittori attivi nell’ambito della prolifica bottega è riferibile solo a un esiguo numero di opere - quelle firmate appartengono al periodo giovanile - le studiose sottolineano come il mutamento stilistico, che porta a questi importanti esiti, cominci a delinearsi già nel 1554, al punto da poter parlare di una “maniera anni sessanta” del Frate di Deruta. A questa fase è ascritta l’opera in esame, che trova in un piatto del museo Anton Ulrich di Braunschweig, attribuibile alla bottega urbinate dei Fontana, un confronto per la scena, a conferma della probabile esistenza di una comune fonte incisoria.
L’attribuzione, con la quale concordiamo, si basa sullo stile pittorico dei personaggi, molto prossimi a quelli caratteristici dei piatti da pompa coevi attribuibili alla bottega, con particolare riferimento al un piatto del Musée National de la Céramique di Sevres col profilo di un guerriero, associabile qui alla testa di Porsenna.