GIOVANNI PRATESI | HOMO FABER PART I

wed 23 October 2024
Live auction 1334
53

Giovanni Baratta, Hercules and the Nemean lion, circa 1709, white marble

€ 80.000 / 120.000
Estimate

Giovanni Baratta, Hercules and the Nemean lion, circa 1709, white marble

 

Giovanni Baratta

(Carrara 1670 - 1747)

ERCOLE E IL LEONE NEMEO

1709 circa

scultura in marmo bianco statuario, cm 185x90x80

 

Provenance

Firenze, Palazzo Ximenes-Panciatichi

 

LIterature

A. Bacchi, F. Freddolini, Giovanni Baratta. Due modelli fiorentini in terracotta, Milano 2010, p. 54 fig. 6, pp. 60-62;

F. Freddolini, Giovanni Baratta 1670-1747. Scultura e industria del marmo tra la Toscana e le Corti d’Europa, Roma 2013, p. 188 n. 32

F. Freddolini in A. Bacchi (a cura di), Collezione G&R Etro. Le terrecotte, Roma 2023, p. 214

 

Allievo a Firenze di Giovan Battista Foggini, il giovane Giovanni Baratta oltreché nella scultura in marmo si applicò anche all'arte del bronzo grazie agli insegnamenti di Massimiliano Soldani; ma determinante fu soprattutto il soggiorno a Roma, dove nel 1691 vinse il secondo premio di scultura nell'Accademia di San Luca con Camillo Rusconi, che impresse un influsso decisivo sulla sua formazione. Tornato a Firenze nel 1696, lavorò soprattutto per committenze chiesastiche, senza però disdegnare lavori profani. Una data direttamente connessa a quest’opera è il 1709, anno in cui il re di Danimarca Federico IV durante il suo Grand Tour in Italia visitò lo studio di Baratta alla Zecca Vecchia e vide un gruppo in marmo raffigurante Ercole e il leone Nemeo quasi terminato, probabilmente destinato ad un committente fiorentino, che acquistò per portare con sé a Copenaghen (ancora oggi custodito nei depositi delle collezioni reali della città scandinava). Si ritiene che tale monumentale gruppo marmoreo sia stato replicato almeno altre due volte: se ne conosce infatti una versione attualmente a Waddesdon Manor nel Regno Unito, originariamente realizzata per la famiglia Buonvisi di Lucca, e l’altra qui presentata, storicamente non documentata in alcun modo se non per la provenienza fiorentina, anche se non è noto se sia stata commissionata dalle famiglie Ximenes o Panciatichi oppure se abbia fatto il proprio ingresso nel palazzo in seguito ad un acquisto sul mercato antiquario. Attribuita a Vittorio Barbieri da Mara Visona, la quale aveva opportunamente notato le similarità con la statua di Copenaghen, essa sembra piuttosto da mettere in relazione con la mano di Giovanni Baratta. A tal riguardo nel 2013 Francesco Freddolini scriveva: “le coincidenze con il monumentale gruppo marmoreo danese sono infatti troppo stringenti per poter ipotizzare un esecuzione da parte di un altro artista: la postura di Ercole, i numerosi particolari ripetuti con meticolosa precisione, come le dita della mani che spalancano le fauci del leone (il quinto dito della mano destra, posto sotto il labbro inferiore, e il quarto e il quinto della sinistra ripiegati davanti alle narici), nonché l'esecuzione dei capelli, con i ricci compatti, ritmati da profondi fori di trapano, e le rughe sulla fronte aggrottata nello sforzo, che convergono verso il centro secondo una schematizzazione simmetrica. Il gruppo marmoreo fiorentino è quindi una replica di quello danese, realizzata probabilmente nel periodo immediatamente successivo alla prima versione. La commissione di questa scultura avvenne forse per emulazione, poiché il marmo acquistato era subito divenuto celebre, oppure perché essa rappresenta una seconda versione dell'opera originariamente commissionata all'artista e mai consegnata al committente poiché fu acquisita da Federico IV”.

Sempre secondo Freddolini “il marmo in collezione Pratesi - pur consunto da una secolare esposizione alle ingiurie del tempo - ancora mostra una qualità esecutiva altissima ed in molti passaggi, come il volto di Ercole e soprattutto la criniera e la postura del leone, appare come una riflessione ulteriore rispetto all'Ercole danese. Sebbene l'intervento di Giovanni Baratta su questo gruppo scultoreo sia stato negli ultimi anni dibattuto, proprio la qualità di questi passaggi fa emergere come sempre più certa l'autografia dello scultore carrarese, soprattutto comparando l'opera con le altre versioni note”.